tag:blogger.com,1999:blog-34135208277620489542024-02-20T18:41:55.542-08:00Odradekbrambillahttp://www.blogger.com/profile/10912589764725973512noreply@blogger.comBlogger12125tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-64515546686004504702010-07-27T02:19:00.000-07:002010-07-27T02:21:20.832-07:00Trasferimento blogIl blog di Odradek è stato trasferito a questo indirizzo:<br /><a href="http://www.odradek.it/blogs/index.php">http://www.odradek.it/blogs/index.php</a>Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-37288695787539437522010-07-20T14:20:00.000-07:002010-07-20T14:57:38.340-07:00Gerontocrazia<p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;">Qualcuno ha notato che "pedofilia" è termine colto e addirittura accattivante per designare una pratica tanto orrenda quanto inaccettabile. Con "gerontocrazia" siamo lì. Il termine trasmette fastidio, sarcasmo, ma non la ripugnanza per una pratica contro natura che mina la riproduzione dei rapporti sociali, l'avvicendamento delle generazioni. L'impazzimento del mondo si mostra anche nell'aumento di queste pratiche, che addirittura si generalizzano con l'innalzamento dell'età pensionabile.</span><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"> </span></p><p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;">Anche i più recenti concorsi universitari banalizzano la pratica di favorire i vecchi a scapito dei giovani, per risarcire i primi della loro ignavia, e per colpire i secondi mettendoli in lista d'attesa ove mostrassero una qualche vitalità inopportuna. È capitato che a un concorso per ricercatore sia risultato vincitore un ultracinquantenne (!) per qualche chilo di pubblicazioni scamuffe accumulate stancamente, e stoppati almeno due giovani brillanti. <span class="Apple-style-span" style="font-style: normal; "><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic; "> </span></span></span></p><p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times"><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic;"><span class="Apple-style-span" style="font-style: normal; "><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic; ">Pubblichiamo questo pezzo di </span><span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 255); ">fucik</span><span class="Apple-style-span" style="font-style: italic; "> apparso sul </span>manifesto <span class="Apple-style-span" style="font-style: italic; ">del 26 giugno 2010 per sottolineare che in questo paese esiste un'unica perversa logica.</span></span></span></p><p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times"><span class="Apple-style-span" style="font-weight: bold;"><br /></span></p><p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times"><b><span class="Apple-style-span" style="font-weight: normal; "><b>Abbasso il posto fisso, viva la poltrona girevole</b> <b> </b></span></b></p><div><span class="Apple-style-span" style="font-family: Times; font-size: 12px; font-weight: bold;">di <span class="Apple-style-span" style="color: rgb(51, 51, 255);">Fucik</span></span></div><div> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times; min-height: 14.0px"><b></b><br /></p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times">Ma come vivono i fustigatori della cultura del «posto fisso»? Un piccolo esempio viene dal valzer delle poltrone aperto giusto ieri [25 giugno] con la nomina di Lamberto Cardia, ancora per quattro giorni presidente della Consob (l'autorità di controllo sulla Borsa), alla presidenza del gruppo Ferrovie dello stato. Finalmente un cambiamento! E mica starete a sottilizzare sui suoi 76 anni... Pensate che riesce anche a tenere una cattedra di contabilità dello stato all'università Luiss di Roma! Prende il posto di Innocenzo Cipolletta, giovane 69enne che certo non resterà disoccupato (è stato tra l'altro direttore generale di Confindustria, presidente dell'università di Trento, vice-presidente de IlSole24Ore, docente di politica economica alla Luiss, ecc). Il cambiamento purtroppo non investe Mauro Moretti, inossidabile amministratore delegato cui vengono perdonati incidenti più o meno gravi o addirittura stragi colpose come quella di Viareggio (32 morti, giusto un anno fa). </p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times">Chi mai potrà ambire al ruolo di arbitro dei giochi sulla piazza finanziaria? Un ruolo così richiede competenze tecniche fuori del comune e un'imparzialità a prova di bustarelle grandi come un container. I due principali candidati al momento sembrano davvero super partes. Giuseppe Vegas, casualmente oggi vice-ministro dell'economia, così come gli era capitato col governo Dini e nei governi Berlusconi 2 e 3, passando per la vicepresidenza del gruppo parlamentare di Forza Italia. Ma nelle ultime ore (lui non insegna alla Luiss) sembra esser stato scavalcato da Antonio Catricalà, ora presidente dell'autorità antitrust e titolare della cattedra di diritto dei consumatori alla Luiss. Al rush finale avrebbe «allungato» dichiarandosi - ieri - favorevole alla modifica dell'art. 41 della Costituzione (limiti sociali entro cui l'impresa privata è libera); e persino al 117 e al 118. Motivazione? «Il paese ha bisogno di norme simbolo: la modifica dell'art. 41 risponde a questa esigenza». Niente che c'entri con l'antitrust, è chiaro; ma roba buona per cambiare la poltrona in scadenza con una di più lunga durata. Naturalmente la sua carica attuale resterà libera. Così il perdente Vegas potrà giocarsela alla pari con Vincenzo Carbone e Francesco Greco, magistrati (o ex) sì, ma certo non «toghe rosse». Ammettiamolo: tutta questa gente in effetti non ama il «posto fisso». Preferisce scambiarselo spesso per non annoiarsi troppo. Fucik, il manifesto, 26 giugno, 2010.</p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times; min-height: 14.0px"><br /></p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times"><br /></p> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 12.0px Times; min-height: 14.0px"><br /></p> </div><div> <p style="margin: 0.0px 0.0px 0.0px 0.0px; font: 18.0px Helvetica; min-height: 22.0px"><br /></p> </div>Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-50148097447295964112010-07-07T04:05:00.000-07:002010-07-07T06:46:03.487-07:00Analisi socio-politica dei mondiali 2010<span style="font-weight: bold;">Un verso di Lucio Dalla che commenta un anacronismo</span><br /><br />by <span style="color: rgb(51, 51, 255); font-weight: bold;">Versus</span><br /><br />Analizzare un anacronismo vivente come i Mondiali di Calcio potrebbe sembrare un esercizio quasi inutile agli occhi di alcuni osservatori. Come appaiono inutili e inconcludenti incontri fra i governi a livello mondiale, infatti – come ad esempio il G-8 o il neonato G-20 - anche per quanto riguarda il calcio, il confronto fra le rappresentanze ufficiali nazionali non sembra più offrire l’occasione per fotografare degnamente lo “stato dell’arte” al massimo livello possibile.<br />Come a livello politico ed economico, gli incontri e gli accordi fra le banche e le grandi corporations sono ormai i veri luoghi di decisione delle scelte sociali e politiche che coinvolgono le persone, a dispetto delle conferenze governative o dei meeting ufficiali fra stati, anche nel calcio, le competizioni “dei privati”, ossia i tornei per club, sia nazionali che internazionali, hanno surclassato per importanza, sia tecnica che commerciale, la kermesse della Coppa del Mondo.<br />Nel terzo millennio, poi, con il mondo “liquido”, in cui le comunicazioni vanno alla velocità della luce ed in cui sono accelerati al massimo i processi di crescita (e di decrescita) di qualsiasi fenomeno, l’idea che una squadra che vince un torneo di un mese, possa fregiarsi del titolo di miglior Nazione del mondo per ben 4 anni appare francamente ingiusta, oltre che fuori dal tempo.<br />Il romanticismo però che evoca la Coppa del Mondo, fa sì che questo torneo possa ancora attirare l’attenzione di milioni di spettatori e, quindi, quasi ci obbliga a cercare di trovare degli spunti o dei trend per quanto riguarda le indicazioni “socio-sportive” che ci ha indicato il torneo Sudafricano.<br />In poche parole possiamo dire il mondiale si è rivelato come la puttana che Lucio Dalla descrive nella sua canzone “<span style="font-style: italic;">Disperato Erotico Stomp</span>”, ossia <span style="font-weight: bold; color: rgb(255, 0, 0);">ottimista e di sinistra</span> , per quattro, semplici ragioni.<br />La <span style="font-weight: bold;">prima</span> è che, nettamente, le squadre che puntavano realmente ad un gioco collettivo hanno superato quelle che invece puntavano quasi esclusivamente sulla abilità dei singoli; la <span style="font-weight: bold;">seconda</span> è che gli allenatori che hanno avuto successo hanno promosso, sia con il loro gioco che, soprattutto, con la loro storia professionale, il messaggio per cui la competenza può essere ancora un fattore più importante del glamour e dell’apparenza; la <span style="font-weight: bold;">terza</span> è il definitivo sdoganamento dell’immigrazione come risorsa necessaria e di qualità per un popolo, a differenza di quella “a chiamata” promossa dalle leggi che i governi di centrodestra hanno promosso negli ultimi anni, la <span style="font-weight: bold;">quarta</span>; è che le squadre con media età più giovane hanno fatto molta strada in questo mondiale.<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Collettivo batte singolo</span><br /><br />Il primo dato fondamentale che balza agli occhi analizzando i risultati di questo mondiale è che, mai come negli ultimi anni, la qualità del gioco collettivo ha assunto una maggiore importanza rispetto al talento dei singoli. Se Messico 1986 era stato certamente più il mondiale di Maradona che dell’Argentina, quello del 1998 più il mondiale di Zidane che della Francia, Corea/Giappone nel 2002 più il torneo di Ronaldo che del Brasile e , quattro anni fa, più il mondiale della nostra difesa (Cannavaro+Materazzi+Buffon) che della nostra nazionale, l’edizione di Sudafrica 2010 sarà ricordata certamente come una vittoria di squadra, piuttosto che nell’esaltazione del singolo. I testimonial dei grandi marchi commerciali, in cui le aziende avevano investito milioni di euro, come Rooney, Messi, Kakà e Cristiano Ronaldo sono andati fuori tutti prima delle semifinali, lasciando spazio a quattro Squadre con la S maiuscola, che fanno dell’organizzazione di gioco collettiva la loro forza. Quattro squadre che sembrano incarnare quattro diverse filosofie di gioco e di vita, ma che seguono tutte un identico percorso, ossia quello della consapevolezza nella divisione dei ruoli, nella ripartizione dei compiti e delle responsabilità da prendersi durante la gara e, soprattutto – in tempi in cui le fabbriche ed i sindacati nel nostro paese concludono accordi in deroga ai diritti garantiti dalla Costituzione - quello della dignità individuale, visto che la divisione dei compiti e la subordinazione dell’importanza del singolo rispetto al collettivo non ci ha impedito di ammirare individualità di alto livello come Sneijder, Stekelenburg, Xavi, Villa, Iniesta, Forlan, Suarez, Schweinsteiger, Muller, Ozil e Klose. Analizziamole nel dettaglio:<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Spagna</span>: finalmente uno slogan sessantottino fino a questo momento privo di senso, <span style="font-weight: bold;">la fantasia al potere</span>, ha avuto la sua diretta consacrazione nel gioco della Spagna di Del Bosque. Da sempre, infatti, sia nel calcio che nella vita si indicava la fantasia come un elemento strettamente individuale, tanto che, uno dei peggiori neologismi mai coniati legati al mondo del pallone era stato quello di identificare con un ruolo in campo, il fantasista appunto, un giocatore dalle particolari facoltà creative. Ma, come ci diceva <span style="font-weight: bold;">Gianni Rodari</span> nella sua “Grammatica della Fantasia”, la base per creare storie fantasiose è il binomio fantastico, ossia “<span style="font-style: italic;">La parola singola (gettata li a caso, con la sua forza evocativa di immagini, ricordi, fantasie, personaggi, avvenimenti del passato, …) agisce solo quando ne incontra una seconda che la provoca, la costringe ad uscire dai binari dell'abitudine, a scoprirsi nuove capacità di significato ... Una storia può nascere solo da un binomio fantastico.</span>" Come una storia può nascere solamente da un binomio fantastico, il gioco della Spagna nasce dall’unione di innumerevoli binomi fantastici: i perfetti passaggi di Xavi non avrebbero senso senza i movimenti senza palla di Villa, le incursioni di Iniesta sarebbero fine a se stesse se non imbeccate dalle geometrie di Xabi Alonso e le scorribande di Sergio Ramos sulla fascia non avrebbero senso senza le adeguate coperture di Busquets. Anche le disattenzioni di Piquè acquistano senso, se poi Casillas riesce a miracoleggiare in porta. I binomi fantastici della Spagna, orchestrati dal Del Bosque sono stati quindi capaci di racchiudere in un sol colpo ciò che i vecchi adagi calcistici trattavano come un ossimoro, ossia una squadra che gioca bene, vince ed è addirittura impermeabile in difesa, visto che, nelle prime 5 partite del mondiale ha subito un solo goal.<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Olanda: il lavoro nobilita l’uomo,</span> ossia come attraverso l’applicazione al lavoro si possano far brillare individualità di primissimo ordine. La squadra di Van Marwijk è molto organizzata e rimane, pur non esprimendo un gioco spumeggiante, quasi sempre in controllo del gioco e della partita. All’interno di questo meccanismo, tutti effettuano la loro parte (tranne forse la punta Van Persie, spesso un po’ avulso dal gioco), con compiti semplici (le trame di gioco sono lineari, a volte ripetitive, ma efficaci, come ad esempio, il servire sempre Robben sui piedi molto largo per favorirgli l’uno contro uno, o il gioco di sponda Sneijder – Van Bommel per il lancio sulla corsa del dinamico Kuyt), tanto che il gioco dell’Olanda fa venire in mente le certificazioni Iso 9002, quelle che ottengono le aziende con servizi di prim’ordine e sistemi di produzione sicuri e garantiti. All’interno di questo collettivo, poi, grazie anche alle semplicità delle giocate che tentano di massimizzare le diverse qualità dei giocatori, si esaltano anche le qualità dei singoli. Wesley Sneijder non ha la tecnica di Messi, o i mezzi fisici di Ronaldo, ma grazie alla perfetta applicazione del suo ruolo in campo, prima nell’Inter e ora nell’Olanda, di centrocampista offensivo (non fantasista, per carità) è diventato ormai il più serio candidato al pallone d’oro. Un altro sbolognato dal Real Madrid, perché considerato troppo galactico, Arjen Robben, grazie alla posizione in campo trovata prima da Van Gaal al Bayern e poi da Van Marwijk in nazionale, come esterno destro sta rendendo come non mai nella sua carriera. Dirk Kuyt e Mark Van Bommel garantiscono una qualità costante sull’out di sinistra ed in cabina di regia, mentre l’altro centrale di centrocampo De Jong sembra non effettuare mai la giocata sbagliata. In questo contesto di squadra organizzata, anche ruvidi giocatori come Ojier e stagionati mestieranti come Van Bronkhorst danno perfettamente il loro contributo. L’elevata qualità del collettivo, come detto, esalta anche i singoli ed anche il portiere Stekelenburg sta effettuando probabilmente alcune tra le sue migliori prestazioni in carriera.<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Germania: lavorare meno, lavorare tutti</span>. Lo sfortunato slogan della sinistra europea (non mi sembra di averne mai visto la realizzazione) trova piena attuazione nella splendida qualità del gioco tedesco, fatto di veloci ripartenze, di buona organizzazione difensiva, di altissima qualità delle giocate in attacco e di propensione collettiva alla fase di non possesso palla. La squadra di Loew, infatti, gioca un calcio con un sistema di gioco molto simile a quello utilizzato dal Brasile e dall’Argentina ma, al contrario delle big sudamericane, il lavoro (inteso come abnegazione alla fase difensiva) è ripartito uniformemente in tutti i calciatori, non solo nei “faticatori scelti” del centrocampo, ossia Mascherano nell’Argentina e Felipe Melo e Gilberto Silva nel Brasile. Nella Germania, il contributo offensivo dei talentuosi Muller, Podolski e Ozil è importante tanto quanto la loro propensione al sacrificio in fase difensiva, che, oltre che aiutare difesa e centrocampo, permette ai due mediani Khedira e Schweinsteiger di mantenere le forze per proporsi con qualità anche nelle giocate offensive. In questa maniera, il carico di lavoro è quasi uniformemente distribuito su tutti i calciatori in fase offensiva e difensiva, garantendo una “piena occupazione” delle giocate di qualità da parte della squadra di Joachim Low.<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Allenatori e cultura del lavoro</span><br />Se analizziamo il curriculum dei quattro allenatori arrivati in semifinale al mondiale, completamente diversi fra di loro per background calcistico e filosofia di gioco, troviamo un solo tratto comune: il percorso di carriera. Tabarez, Del Bosque, Van Marwijik e Loew hanno infatti inziato tutti come allenatori di squadre giovanili e hanno effettuato tutti un percorso di crescita comune che li ha portati ad essere, poi, assistenti di prima squadra, allenatori di squadre di club e, alla fine del percorso, allenatori delle nazionali. Il successo di allenatori “veri”, che hanno costruito la loro carriera con il lavoro sul campo e con le qualificazioni tecniche a livello federale è sicuramente un ottimo riconoscimento per la categoria degli allenatori, visto che altre squadre del mondiale, che si erano affidate a commissari tecnici praticamente alla prima esperienza in panchina, hanno fatto molta meno strada, pur essendo state accreditate del ruolo di favorite.<br />Il messaggio che sembra lasciarci questo mondiale è quindi che investire su se stessi, in termine di cultura e competenza sembra poter pagare piuttosto che cercare scorciatoie per il successo immediate. Facendo un forzato parallelismo potremmo paragonare Loew, Tabarez, Del Bosque e Van Marwijk a ricercatori universitari che arrivano faticosamente ad un importante premio accademico, mentre Dunga e Maradona si potrebbero accostare a famosi prezzemolo prodotti dai reality show, e, anche se le masse sembrano propendere per questi (si veda l’accoglienza in grande stile ricevuta dal Pibe de Oro al ritorno a casa dopo l’eliminazione) in un’analisi strettamente darwiniana, per la conservazione della nostra specie sembra maggiormente auspicabile che abbiano successo i primi piuttosto che i secondi.<br /><br /><br /><span style="font-weight: bold;">Immigrazione reale batte Bossi-Fini</span><br /><br />Si è dibattuto molto sulla germanicità dei componenti la squadra tedesca. Undici giocatori sono naturalizzati! Quasi la metà di loro non sono veri tedeschi! Sono state le frasi di cui si è maggiormente abusato nel corso delle ultime settimane. Non è vero! I naturalizzati presenti nella nazionale tedesca sono…..uno solo. Il brasiliano Cacau, è infatti l’unico giocatore veramente non tedesco a disposizione della squadra di Low, visto che da brasiliano è arrivato anni fa in Germania per giocare a calcio e lì si è stabilito, prendendo poi anche il passaporto. Tutti gli altri sono ragazzi tedeschi al 100%, frutto di un processo di immigrazione ormai consolidato che ha permesso al paese e alla sua economia di riuscire ad essere uno dei paesi guida dell’Europa dagli anni’60 in poi.<br />Klose e Podolski, nati in Polonia, sono cresciuti in Germania fin da bambini; Boateng è figlio di un matrimonio misto tedesco-ghanese, come Khedira lo è di un’unione tedesco.-tunisina, Ozil rappresenta alla grande i milioni di turchi che hanno trovato in Germania la loro casa e, soprattutto, il lavoro. Questi calciatori, protagonisti della Germania migliore degli ultimi anni (dal punto di vista calcistico) sono il frutto di un’apertura all’esterno del paese tedesco (che ha cambiato la legge sulla cittadinanza nel 2000, rendendola molto accessibile ai figli degli immigrati) e alla qualità della scuola calcio teutonica, visto che questi ragazzi hanno tutti imparato a giocare in Germania. Le polemiche sulla non autenticità della Germania lasciano quindi il tempo che trovano. Molto peggio è andato alle squadre con “veri naturalizzati”, ossia gli immigrati di alto livello, come nella realtà se ne vedono ben pochi, in pieno accordo con la filosofia della legge Bossi-Fini. La nostra squadra, ad esempio aveva Camoranesi, giocatore argentino formato in Argentina, arrivato in Italia solo per giocare a calcio e “convertitosi” alla causa della nazionale italiana solo perché mai considerato dalla federazione argentina, mentre un esempio della nascente multicultarilità del nostro paese, Balotelli, è stato lasciato a casa, perdendo la possibilità sia di creare un utile veicolo comunicativo antirazzista nel nostro paese sia di fornire un apporto decisamente migliore di quello di Camoranesi, apparso clamorosamente fuori condizione. Anche tutte le altre squadra imbottite di naturalizzati alla “Bossi-Fini”, come ad esempio il Portogallo, hanno fatto un mondiale decisamente sottotono, ribadendo il concetto che l’immigrazione è una risorsa per ogni paese e limitarla alle sole élites (acquisto dei cervelli o dei “piedi buoni” dall’estero) può non dare i frutti sperati.<br /><br /><span style="font-weight: bold;">Il presente è dei giovani</span><br /><br />Germania, Spagna ed Uruguay hanno tutte un’età media sotto i 27 anni, e sono tra le squadre più giovani del mondiale. Nei tedeschi, il giocatore più esperto a livello internazionale è addirittura il 26enne Schweinsteiger, un veterano, in confronto ai poco più che ventenni Muller Ozil, Kroos e Khedira. Tre delle quattro squadre con la media età più alta di questo mondiale erano l’Italia (strano parallelismo con la gerontofilia delle nostre poltrone decisionali, sia economiche che politiche) che, da campione del mondo, è uscita miseramente al primo turno senza effettuare alcuna vittoria, l’Inghilterra ed il Brasile, anch’esse uscite senza gloria molto prima di quanto ci si potesse aspettare. Il messaggio che sembra darci il mondiale è quindi smettiamo di “investire sui giovani” ma bensì lasciamo spazio ai giovani, alle nuove generazioni. Anche qui, comunque c’è un distinguo da fare sulla qualità: largo ai giovani sì, ma che siano all’altezza. Fra le squadre più “verdi” del mondiale vi erano infatti Corea del Nord e Camerun, che sono uscite mestamente con tre sconfitte in tre partite. Comunque, il mondiale ci dice che nei giovani c’è qualità, basta solo cercarla!<br /><br /><br /><span style="font-size:180%;"><span style="font-weight: bold;"><span style="color: rgb(0, 0, 153);">versus</span><br /><br /></span></span><span style="font-size:85%;"><span style="color: rgb(0, 0, 0);">Avevamo appena finito di postare la limpida analisi di Versus sul calcio mondiale - metafora della politica internazionale? - quando ci arriva questa storiaccia di calcio vernacolare e imprenditoria plebea che ci ricaccia nei gironi nazionali, danteschi ovviamente. Ce la manda<span style="font-weight: bold; color: rgb(0, 0, 153);"> Ri-Versus</span>, con questo commento:<br /><br /><span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);">L’onore del Prizio</span><br /><span style="font-style: italic;">Grazie al presente documento (allegato) veniamo a sapere di un mutamento di paradigma epocale nella categorizzazione dei rapporti di causa e di effetto in relazione a risultati sportivi. Se la Fiorentina ha perso a causa dell’articolo di Prizio, dovrebbe presumersi prossima analoga istanza a firma Abete, Lippi e sponsor interessati contro la stragrande maggioranza dei giornalisti italiani – sempre che frequentatori di bar e altri incauti categorizzatori riescano a rimanere anonimi.</span><br /><br /><br /><br />TRIBUNALE CIVILE DI FIRENZE<br />Atto di citazione<br /><br />I sigg. Diego Della Valle, CF……, e Andrea Della Valle, CF…., residenti …. e domiciliati presso lo studio dell’Avv. Alessandro Giannetti, CF…, che li rappresenta e difende per delega in calce al presente atto unitamente all’Avv. Maurizio Boscarato di Ancona, CF…. espongono e chiedono quanto espresso.<br />I fratelli Diego e Andrea sono fra i più importanti, conosciuti e stimati imprenditori italiani, esponenti di primo piano del made in Italy, presidente il primo e il secondo (nonché, insieme, azionisti di maggioranza) della Tod’s S.p.A., società quotata sul Mercato Telematico Azionario Italiano, leader nel mondo del lusso con i famosi marchi Tod’s, Hogan, Fay e Roger Vivier, a capo di un Gruppo che dà lavoro a molte migliaia di persone.<br />Sono, altresì, molto noti negli ambienti finanziari nazionali ed internazionali, possedendo partecipazioni significative in Marcolin, Bialetti, Piaggio, Safilo, Saks, Mediobanca, Rcs Mediagroup; Diego Della Valle è consigliere di amministrazione di Assicurazioni Generali, RCS Mediagroup, Ferrari, Louis Vuitton Moet Hennessy, Compagnia Immobiliare Azionaria, membro del comitato esecutivo di Confindustria, presente nei patti del sindacato di Mediobanca, RCS Mediagroup, Assicurazioni Generali.<br />Gli istanti sono altresì proprietari, attraverso Diego Della Valle & C. S.A.P.A., dell’intero capitale sociale della ACF Fiorentina S.p.A., società che opera nel settore sportivo di calcio professionistico, partecipando alle competizioni calcistiche nazionali ed internazionali.<br />In tale ultima veste gli istanti, nel settembre 2008, hanno presentato alla stampa e alla città di Firenze una ipotesi di progetto denominata “Cittadella Viola”, da conseguire ad opera di una Fondazione appositamente costituita, e che prevede la realizzazione di un nuovo Stadio in grado di ospitare al coperto dai 40.000 ai 45.000 spettatori: una struttura moderna e accogliente, collegata alle arterie cittadine e dotata di ampie aree di parcheggio.<br />Accanto allo Stadio il progetto prevede, nell’ottica di potenziare la società calcistica e conseguire i massimi obiettivi sportivi, la realizzazione di un’area tecnica in grado di assicurare ai calciatori della Fiorentina gli standards lavorativi più all’avanguardia, e lo svolgimento di molteplici attività in grado di generare i proventi necessari per finanziare adeguatamente la squadra di calcio e, nel contempo, creare occupazione ed apportare benefici alla città: un albergo, un cinema, un ipermercato, una promenade con negozi e botteghe artigiane, grandi aree verdi per trascorrere giornate all’aria aperta, un Parco tematico ispirato ai moderni parchi di divertimento (una sorta di Eurodisney del calcio), ed infine un museo di Arte Moderna (novità assoluta nell’offerta culturale della città).<br />Un progetto che ha suscitato unanime entusiasmo e condivisione, ed è stato accolto in primis dall’amministrazione comunale fiorentina, che ha manifestato la massima disponibilità ad appoggiare il complesso e non breve iter previsto per la sua realizzazione.<br />Tornando alla ACF Fiorentina, i risultati sportivi conseguiti nell’esercizio 2009 hanno visto la prima squadra raggiungere la quarta posizione nella classifica finale del Campionato Italiano di serie A 2008/2009, con conseguente ammissione alla Champions League 2009/2010, ove essa ha poi disputato con successo la Fase a Gironi, e quindi gli Ottavi di Finale contro il Bayern Monaco, risultando eliminata da questa squadra (che ha successivamente raggiunto la Finale, perdendola con l’Inter) grazie al maggior numero di reti segnate in trasferta (e grazie ad una clamorosa svista arbitrale nella partita di andata a Monaco).<br />Nel campionato di Serie A 2009/2010 da poco conclusosi, i risultati sportivi sono stati inferiori rispetto a quelli dell’esercizio precedente, ed a fine marzo 2010, benché la Fiorentina apparisse ancora in grado di conseguire una posizione finale utile per accedere alle competizioni Europee, una modesta parte della tifoseria, istigata e fuorviata da una precisa strategia mediatica, ha sollevato contestazioni e polemiche con particolare riferimento a presunte (ed inesistenti) divergenze fra la proprietà e l’allenatore Cesare Prandelli.<br />Fiorentina.it è un sito web autonominatosi “Il sito dei tifosi viola”, molto seguito e accreditato dai tifosi di Firenze; i suoi redattori pubblicano quotidianamente brevi articoli, commenti e interviste dedicati tutti alla Fiorentina, alla sua vita sociale, ai suoi risultati, alle sue prospettive e aspettative, ai suoi calciatori, amministratori e managers; un sito al quale accedono ogni giorno decine di migliaia di tifosi, molti dei quali inviano i propri commenti sui vari temi trattati.<br />In data 27.03.2010 è apparso sull’anzidetto sito fiorentina.it un incredibile articolo a firma Stefano Prizio, contenente espressioni offensive, diffamatorie e gravemente pregiudizievoli ai danni degli attori e della ACF Fiorentina; ci riferiamo in particolare, in particolare, alle affermazioni secondo cui:<br />un assessore del Comune di Firenze sarebbe “saltato” per non aver concesso “ad un’azienda privata” (e cioè alla ACF Fiorentina S.p.A.) “condizioni economiche dettata dalla stessa azienda privata”;<br />Il “progetto” Cittadella Viola dei fratelli Della Valle, unitamente considerato indispensabile per dare alla Fiorentina un futuro da protagonista nel mondo del calcio e dotare Firenze di una grande e moderna struttura sportiva di avanguardie, sarebbe “da arrotolare ed usare come vibratore contro natura”;<br />Il progetto stesso sarebbe frutto dell’intento meramente speculativo dei fratelli Della Valle, e costituirebbe “scusa per costruire centri commerciali” ed aprire “boutiques”;<br />Per la Fiorentina S.p.A. ed i fratelli Della Valle, le parole non avrebbero “un valore”, ma servirebbero solo “a dare una forma fonica al fiato emesso”.<br /><br />Il signor Prizio è liberissimo di non condividere il progetto Cittadella Viola, ma le sue anzidette volgari espressioni, gravemente ingiuriose e diffamatorie, trascendono abbondantemente il diritto di critica spettantegli, e costituiscono pesante violazione del principio di continenza (Cass. 7.12.2005 n. 26999); appaiono intenzionalmente volte a delegittimare e denigrare l’operato degli odierni attori (i quali, com’è ben noto, nel 2002 raccolsero cocci della vecchia Fiorentina, dichiarata fallita da questo tribunale, e crearono dal nulla davanti al Notaio una nuova squadra di calcio, iscrivendola alla Serie C2 e riconducendola in pochi anni sulla ribalta nazionale ed internazionale: mai in precedenza la Fiorentina aveva avuto accesso agli ottavi di finale di Champions League). L’iniziativa del sig. Prizio ha prodotto enorme scalpore e sconcerto nell’intero ambiente calcistico fiorentino, destando tensioni fra la proprietà ed i vertici societari, preoccupazione fra i calciatori, irritazione e sospetti tra i tifosi; forse non a caso quello del 28.3.2010 (Fiorentina/Udinese 4 a 1) fu l’ultimo successo della squadra gigliata in Campionato: da allora, tre pareggi e quattro sconfitte, tanto che al termine della stagione la Fiorentina è risultata appena undicesima, con solo 47 punti.<br />Di fatto, le gratuite offese del signor Prizio hanno contribuito in modo determinante a mettera a soqquadro l’ambiente calcistico locale, incrinando l’unità fra la proprietà, la squadra e l’allenatore, con evidente strategia di minare la fiducia del popolo viola verso la famiglia Della Valle.<br />Con la presente azione, Diego ed Andrea Della Valle intendono perseguire il descritto illecito comportamento del sig. Prizio, ed ottenere il risarcimento del danno subitone.<br />Trattasi, nella fattispecie, di danno non patrimoniale: danno all’immagine, di particolare gravità in relazione da un canto al prestigio degli attori ed all’importante ruolo che essi ricoprono nel mondo delle imprese, e dell’altro alle ripercussioni negative delle gratuite accuse del Prizio sulla credibilità degli attori medesimi, sulla stima sulla fiducia dei tifosi fiorentini verso di loro; danno morale soggettivo, costituito (Cass. 24.4.2007 n° 9861) dal turbamento dell’animo transuente e dalla soffernza contingente provati dagli attori in conseguenza delle frasi ingiuriose e delle ridette false accuse loro rivolte dal convenuto.<br />Danni liquidabili entrambi in via equitativa, ed il cui ammontare si propone in complessivi Euro 500.000,00, così suddivisi: Diego Della Valle, danno all’immagine Euro 200.000,00, danno morale Euro 50.000,00; Andrea Della Valle, danno alla immagine Euro 200.000,00, danno morale Euro 50.000,00; il tutto, salva ogni diversa, anche maggiore quantificazione ad opera del Tribunale. Dichiarano al riguardo gli attori che, una volta conseguito il pagamento a parte del convenuto delle somme che il Tribunale vorrà liquidare, ne devolveranno in beneficenza l’intero ammontare.<br />Ciò premesso,<br /><br />CITANO<br />Il signor Prizio Stefano, nato a … residente in… C.F a comparire dinnanzi al Tribunale Civile di Firenze, alla pubblica udienza che sarà tenuta il giorno 26 novembre 2010 ore di rito, negli appositi locali del Palazzo di Giustizia, invitandolo a costituirsi in giudizio nel termine di giorni 20 prima dell’udienza indicata ai sensi e nelle forme stabilite dall’art. 166 c.p.c., e a comparire nell’udienza stessa dinanzi al Giudice che sarà designato ai sensi dell’art. 168 bis c.p.c., con l’avvertimento che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c. per ivi in sua presenza o dichiarata contumacia, sentir accogliere le seguenti<br /><br />CONCLUSIONI<br /><br />Piaccia al Tribunale, contrariis reiectis, accertare la natura di illecito penale nei passi dell’articolo apparso su fiorentina.it il 29.03.2010 e descritti nella narrativa del presente atto di citazione, e per effetto condannare il signor Stefano Prizio al risarcimento in favore dei sigg. Diego e Andrea Della Valle del danno per le causali e nella misura indicata nella narrativa che precede, o in quella diversa (anche maggiore) somma che sarà ritenuta di giustizia in via equitativa ex aet. 1226 c.c., oltre alla pubblicazione della sentenza a sue spese ex art. 120 c.p.c. ed oltre alla sanzione accessoria ex art. 12 L. 47/48, da liquidarsi secondo giustizia ed equità.<br />In via subordinata, qualora il Tribunale non dovesse ravvisare in alcuno dei passi medesimi gli estremi di reato, accertare la loro natura di illecito civile ex art. 2043 c.c., e per l’effetto condannare il signor Stefano Prizio al risarcimento in favore dei sigg. Diego e Andrea Della Valle del danno per le causali e nella misura indicata nella narrativa che precede, o in quella diversa (anche maggiore) somma che sarà ritenuta di giustizia in via equitativa ex art. 1226 c.c., oltre alla pubblicazione della sentenza a sue spese ex art. 120 c.p.c.<br />In ogni caso, con interessi e rivalutazione monetaria delle somme che verranno liquidate, spese ed onorai rifusi.<br />Si producono:<br />articolo a firma Stefano Prizio su fiorentina.it del 27.3.2010<br />comunicazione dell’editore di fiorentina.it del 29.3.2010<br />n° 4 tavole del progetto Cittadella Viola;<br />risultati sportivi ACF Fiorentina 28.3-16.5.2010 Serie A<br />Salvis juribus<br />Ai fini del contributo unificato per le spese degli atti giudiziari si dichiara che il valore della presente causa è di € 500.000,00.<br />Firenze, 16 giugno 2010 <br /><br />Avv. Maurizio Boscarato<br /><br />Avv. Alessandro Giannetti<br /></span></span>Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-51840146269358317112010-01-17T07:46:00.000-08:002010-01-17T07:55:48.132-08:00Cartolina dall’inferno degli immigrati “clandestini” espulsi da RosarnoCari cittadini normali e italiani,<br /> dei fatti di Rosarno vi hanno detto tutto quello che dovete pensare giornalisti, politici ed ecclesiastici. Mancano i nostri racconti. Nessuno ha fatto in tempo ad intervistarci o ha avuto voglia di sentire le nostre ragioni. Nulla di male. Non ne abbiamo, infatti. E perciò vi scriviamo solo per scusarci. Vi scriviamo dall’inferno, dove ci hanno accompagnati i vostri bravi carabinieri su ordine dell’equanime ministro Maroni.<br />Ecco, qui siamo finalmente in compagnia dei nostri simili: streghe ed eretici, bruciati dalla Chiesa cattolica, prima che Papa Wojtyla si pentisse; indios passati a fil di spada dai conquistadores; ebrei arrivati qui a milioni passando dai forni crematorii; anarchici e comunisti rieducati dai gulag di Stalin; delinquenti e delinquentesse d’ogni forma e d’ogni età; dannati della terra giunti a bizeffe dai vari angoli del pianeta.<br />Avete avuto ragione a spedirci qui. L’inferno è il posto che meritiamo per aver osato venire in Italia da clandestini: disturbandovi, impaurendovi, complicando la vostra vita già complicata. Certo, saremmo rimasti volentieri nei nostri paesi. Ma abbiamo avuto fifa. E pure impazienza. Non abbiamo avuto il fegato di restare eroicamente in mezzo a guerre e persecuzioni, aspettando che i vostri soldati, assieme agli alleati della Coalizione USA, portassero a compimento la guerra umanitaria e ci regalassero la democrazia. È vero che spesso eravamo ridotti alla fame. Però abbiamo sbagliato lo stesso a venire. S’era sparsa la falsa voce che in Italia si stava meglio, che c’erano dei lavori anche per noi. Almeno quelli più pesanti e dequalificati, che i vostri figli non vogliono più fare. Non perché viziati o fannulloni, per carità. Ma per non rovinarsi la salute e godersi di più la vita. Giustamente.<br />No, non siamo stati giudiziosi. Non abbiamo riflettuto sul fatto che, se si tenta di far salire dieci persone su una cinquecento, come ha detto un vostro illustre professore, non può non finire a scazzottate. E poi tra noi troppi ne hanno anche approfittato. Non sono venuti in Italia per necessità superiori o per lavorare. Ma per un colpo di testa, per spirito d’avventura, persino per delinquere, credendo che in Italia fosse più facile che altrove. E le hanno provate tutte per venirci: chi sui gommoni, chi facendosi passare per turista, chi stipato nei camion. Così, per fare delle vacanze avventurose. Hanno pagato pure delle belle mance, si sa. Ma l’avventura attirava. È stata una grande ubriacatura. O Italia o morte! – gridavamo. E avevamo imparato anche Fratelli d’Italia…<br />Ora, all’inferno, stiamo rinsavendo. E ringraziamo tutti voi italiani, ma soprattutto Maroni e quelli della Lega. Ci hanno fatto capire - prima con le buone; poi, visto che eravamo duri di comprendonio, in maniere spicce e incisive - quanto ci siamo illusi. E a Rosarno sprangate e pallettoni hanno parlato chiaro. Proprio come Maroni.<br />A Rosarno l’abbiamo fatta proprio grossa. Invece di essere riconoscenti per quello che ci avevano offerto, appena qualche testa calda locale (ce n’è sempre una in mezzo alla brava gente italiana; e anche a Rosarno) ci ha sparato addosso (esagerando ovviamente; ma è che noi gli facevamo paura ed ha perso la testa), noi, invece di darcela a gambe levate, ci siamo addirittura rivoltati in modi incivili e illegali, lasciandoci (veramente non ce ne siamo accorti) manovrare anche dalla ‘ndrangheta. «Una classica rivolta contadina», ha scritto con un pizzico di sufficienza un vostro intellettuale di sinistra.<br />Purtroppo noi clandestini non abbiamo imparato ancora l’autocontrollo mostrato da certi vostri leader politici e morali. Ci siamo ritrovati nel cuore tanta rabbia e disperazione, accumulata senza alcun motivo, chissà come, giorno dopo giorno, qui in Italia. E non abbiamo saputo gestirla, come fanno quelli del partito dell’amore o quelli che predicano la pace.<br />Abbiamo fatto una cazzata madornale, grossa come un baobab. Voi italiani non ve la meritavate. E pensare che molti di voi, pur di farci rimanere in Italia e di accoglierci, avevano anche generosamente chiuso tutti e due gli occhi di fronte alle nostre baracche, ai nostri giacigli posizionati tra le macerie delle discariche o delle fabbriche dismesse.<br />Noi stupidi non ce n’eravamo accorti che di straforo li guardavate ammirati. Facevano tanto arte povera. E noi invece a dire: Che indifferenti, 'sti 'taliani! Lo capiamo adesso che ci volevate anche bene. Era un modo silenzioso di aiutarci, di farci restare in mezzo a voi, d’invitarci a resistere, resistere, resistere. Bastava che avessimo avuto l’accortezza di restare per sempre fantasmi, di diventare da invisibili, ombre senza nome, sguscianti veloci come ratti da un ghetto a un altro. Mai saremmo arrivati all’espulsione.<br />E pensare che persino i leghisti, pur continuando a sbraitarci contro, si erano dimostrati in fondo generosi: al Nord a parecchi di noi hanno spalancato le porte del lavoro nero nelle loro fabbrichette. Per non parlare della tradizionale ospitalità del Sud d’Italia: qui, e non solo a Rosarno, ma in moltissime campagne, i nobili discendenti dei baroni meridionali ci hanno impiegato nelle stagionali raccolte di pomodori, mandarini, arance. È vero che i loro caporali ci hanno spremuto dall’alba al tramonto in cambio di pochi euro, ma non erano più fastidiosi delle zecche. Avremmo potuto benissimo sopportarli ancora. Anche se a volte hanno un po’ esagerato, scambiandoci per bestie. E si sono sbagliati. Ma tutti sbagliano in certe situazioni. Insomma, se ci fossimo decisi ad essere dei bravi schiavi, se non avessimo sgarrato, le cose non sarebbero finite male. L’abbiamo capito troppo tardi.<br />Non avevamo scuse. Ha avuto ragione Maroni. Abbiamo esagerato. E per rappacificare gli animi ci ha dovuto per forza espellere. E quelli di Rosarno hanno dovuto fare pure una manifestazione per dimostrare al mondo che non ci hanno trattato da razzisti. Se la potevano risparmiare. Il problema in Italia non esiste. In Italia, sempre come dice Maroni, devono restare al massimo degli immigrati bonificati, cioè brava gente come gli italiani.<br />Purtroppo in mezzo a noi clandestini c’è una percentuale di delinquenti troppo alta. Prostitute, rapinatori, ladri, spacciatori di droga – se di origine albanese, marocchina, africana, latinoamericana – svelano poi una cattiveria e una pericolosità particolari, che non si trovano più e da tempo tra voi italiani.<br />Qui, all’inferno, che rende tutti più sinceri, lo riconosciamo apertamente. I vostri ricchi sono davvero più onesti ed altruisti dei ricchi dei nostri paesi di provenienza o di altri paesi. I vostri lavoratori sono davvero più laboriosi ed educati che altrove. E poi hanno messo la testa a posto. Erano per noi un modello da cui imparare. Infatti, malgrado chiusure di fabbriche, licenziamenti e lavori precari, non se la prendono più con i padroni, come facevano una volta, ma – giustamente – con noi. Noi, purtroppo, anche quando non gli togliamo il lavoro, abbiamo portato in Italia una cattiveria che fa paura e che non s’era mai vista prima, neppure ai tempi del vostro fascismo. Mentre basta vedere i vostri disoccupati e i vostri poveri: sanno portare a spasso i loro nobili volti di disoccupati e di poveri con una dignità che fa invidia.<br />A dirvela tutta, noi clandestini abbiamo anche approfittato dell’accoglienza di certi italiani deboli. Invano gli italiani forti, quelli coi coglioni, li hanno accusati di essere mollaccioni, buonisti, anime belle piene di sensi di colpa. Questi preti e questi nostalgici del comunismo o del ’68 hanno coperto la nostra clandestinità. Sono diventati nostri complici. Perché si erano innamorati di noi: gli ultimi, i “ nuovi poveri”, i “ nuovi proletari”.<br />Malgrado l’espulsione, tuttavia, noi vi ammireremo sempre. Anche dall’inferno. Voi siete dei veri giusti. Dovrebbero darvi la medaglia dei migliori respingitori del Mediterraneo. Voi sapete bene quando e chi punire. E meritate un’Italia fatta solo da gente onesta, dalle mani pulite, come quella che vi governa. Ed espellendoci, vi avvicinerete presto a tale agognato traguardo. Liberati dalla nostra zavorra e malgrado milioni di disoccupati (tutti italiani, pero!) e una certa povertà (fisiologica in tutti i paesi ricchi), Berlusconi, Fini, Bossi e persino D’Alema - i veri nuovi salvatori della patria dalle nostre barbariche invasioni - potranno stringersi finalmente e lealmente la mano. Aspettiamo presto all’inferno solo i preti della Caritas e i nostalgici del comunismo. Allora sì, la vostra Italia sarà tutta normale.<br />Grazie di tutto. Saluti e caldi baci dall’inferno.<br /><br /><span style="font-weight: bold; color: rgb(51, 51, 255);">Ennio Abate</span> 12 gen 2010Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-38280695993041010462009-10-22T02:03:00.000-07:002009-10-22T02:24:48.462-07:00Un sorprendente esempio di revisionismo storico<span style="font-size:85%;"><span style="font-style: italic;">Il 12 settembre, a Milano, si sono tenuti i funerali di stato per un improbabile partigiano, ignoto antifascista, senatore a vita mancato, ma straordinaria maschera che va ad arricchire la commedia dell'arte italica: il Domandiere, che ignora la risposta, qualsiasi sia la domanda che legge. Nell'occasione, proponiamo questa analisi di Felice Accame.</span><br /><br /><span style="font-style: italic;">ps- Ci fa notare Antonio A. - riportando l'osservazione di Beccofino - che, a proposito di partigiani, antifascismo e mancati senatori a vita, invece, Vittorio Foa, i funerali di Stato non li ha avuti. Meglio così. Echissenefrega.</span></span><br /><br /><span style="font-weight: bold; color: rgb(204, 0, 0);font-size:130%;" >Un sorprendente esempio di revisionismo storico </span><br /><br />di <span style="font-weight: bold; color: rgb(0, 0, 153);">Felice Accame</span>, sta in <a href="http://www.odradek.it/Schedelibri/sistemastelle.html"><span style="font-style: italic;">Antologia critica del sistema delle stelle</span></a>, Roma Odradek, pp. 154-156.<br /><br />«Idolatrato da milioni di persone, ... deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita ... ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto». Fossero state scritte, queste parole, nel 2004, e se dovessimo indovinare a chi si riferiscono, ci troveremmo in imbarazzo. [...] Ma questi giudizi sono stati formulati nel 1961, allorché era piuttosto facile individuare la persona cui si potevano adattare. Per l'appunto nel 2004, Aldo Grasso ci ha dato una strana lezione di ermeneutica. Ci ha spiegato – cosa che non saremmo mai riusciti a capire da noi – che "le cose cambiano in continuazione", che "cambiano gli spettatori, cambiano i presentatori, cambiano i punti di vista, cambiano i contesti, cambiano, col tempo, anche i testi analizzati". Il che sarebbe come dire che non devo fidarmi delle analisi dell'orina del lunedì mattina perché l'orina del mercoledì sarà diversa. Il che sarebbe come dire "di analisi non facciamone più". Il che rappresenta la punta ideologicamente più avanzata del pragmatismo berlusconiano. Questa strana e inconsulta lezione, Grasso ce la somministrava per festeggiare l'ottantesimo compleanno di quel "signore del buonsenso" che, a suo dire, è Mike Bongiorno. Il Mike Bongiorno di oggi, secondo il Vangelo di Grasso, "sfoggia cultura, quella cultura popolare che lo ha reso famoso e che gli ha permesso di svolgere un ruolo non indifferente nel lungo processo di costruzione dell'identità italiana". Da genio quale è, questo Bongiorno avrebbe sempre saputo scegliere il "punto di vista del 'semplice'" (con le virgolette parachiappe). Le sue "gaffe, bizze, goffaggini" sarebbero state parte di un suo acuto marchingegno d'intelligente ingegneria sociale e chi, nel passato, avesse avuto qualcosa da ridire nei suoi confronti sarebbe un "entomologo dell' ovvio". In ragione di ciò, Grasso chiede a gran voce che Umberto Eco, – che nel 1961, sulle pagine della rivista Il Verri, pubblica quella Fenomenologia di Mike Bongiorno che poi, insieme a qualche scherzo letterario e a saggi storicamente significativi come l'Elogio di Franti, raccoglierà nel fortunato Diario Minimo - Fenomenologia di Mike Bongiorno da cui ho tratto quel bozzetto iniziale –, ritiri quanto ha scritto e che, in pratica, ne firmi una riabilitazione.<br />La sera del l giugno del 2004, nei giardini del Quirinale, il Presidente della Repubblica Ciampi festeggia il cosiddetto "compleanno della Repubblica". Concerto e cocktail per duemila invitati che il giornale su cui scrive Aldo Grasso definisce "rigorosamente selezionati". La serata – che non soltanto fotograferebbe i "poteri in corso", ma che segnalerebbe altresì "chi sale e chi scende nella teleaffettività degli italiani" – costituirebbe un "trionfo" per Mike Bongiorno. Che piange di commozione per le belle parole che Ciampi (lettore attento di Grasso, evidentemente, e sulle stesse posizioni ermeneutiche) trova per lui. Non solo. Riferiscono le cronache che, più tardi, Mike Bongiorno trovi la forza di rivelare cosa gli ha detto Franca Ciampi. Gli ha detto: "Mi ha detto che sono più bello dal vivo". Mi è capitato più volte di sentirmi come un personaggio di quel vecchio film di Don Siegel, L'invasione degli ultracorpi, e di scoprire all'improvviso che anche il mio interlocutore è uno di loro. Qui è chiaro – è l'illuminante frase di Franca Ciampi a farcelo comprendere – che, in quei giardini del Quirinale, tutti siano dei loro. Ma quel che dice Franca Ciampi verrà pure da qualche parte. Voglio dire che, incontrare Mike Bongiorno e ritenere opportuno e sensato dirgli che "è più bello dal vivo", è una scelta che proviene da una matrice culturale fin troppo chiara. Quel pensiero sa, in altre parole, di Mike Bongiorno stesso, dall'inizio alla fine. Anzi, giurerei che è fin suo, suo ideologicamente e suo storicamente. Anni or sono, allorché ha cominciato a produrre i signori e le signore Ciampi, avrà pur detto a qualcuno: "ma sa che lei è più bello dal vivo". È il tipico campione della cultura bongiornica e, soprattutto, è il tipico segno delle scelte politiche che hanno condotto a questa cultura. Non ho mai apprezzato gran che La fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco. Per difetto di critica nei confronti del personaggio, non per eccesso. Come buona parte degli scritti di Eco, la ritengo più l'espressione giocosa di una borghesia intellettuale che il risultato di una critica radicale del sistema culturale e della sua filosofia. Chi indugia su categorie come quella della "mediocrità", o chi crede che la comunicazione televisiva possa essere analizzata e risolta in termini di rapporti gerarchici fra chi sta da una parte e chi dall' altra del video – non chiedendosi né le radici politiche di ciò che lui categorizza come mediocrità né perché qualcuno sta da una parte e qualcun altro sta dall'altra parte del video –, in fin dei conti, sta semplicemente ribadendo altre gerarchie costituitesi secondo il proprio punto di vista. Spero sinceramente che Eco non accolga l'invito di Aldo Grasso e lasci Mike Bongiorno in quel modestissimo inferno in cui l'aveva piazzato a suo tempo. O meglio, se Eco volesse dimostrare di esser cresciuto – e dal 1961 al 2004 ne avrebbe fin il dovere –, e di non far parte di questa miserevole servitù di regime, potrebbe riscrivere La fenomenologia di Mike Bongiorno e rincarare la dose. Con un'appendice dal titolo: "Mike Bongiorno come ontologia e come costruzione sociale: due linee a confronto". �Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-40872619884855673262009-05-02T05:23:00.000-07:002009-05-02T05:26:28.816-07:00Considerazioni sui prossimi referendumdi <span style="font-weight: bold; color: rgb(51, 51, 255);">Curzio Bettio</span> di <span style="font-style: italic;">Soccorso Popolare</span> di Padova<br /><br />Padova, 22 aprile 2009<br /><br />Siamo arrivati al dunque. Il governo Berlusconi ha deciso che il “giorno delle elezioni” non ci sarà, è stata esclusa ogni possibilità di accorpamento tra le elezioni europee, le elezioni amministrative e i tre quesiti referendari che riguardano la attuale legge elettorale, il cosiddetto “porcellum”, il nostro sistema di voto che priva fra l’altro l’elettore della facoltà di esprimere preferenze proprie. <br />Il referendum si terrà probabilmente il 21 giugno, la data dei ballottaggi delle consultazioni locali. Molti personaggi politici dello schieramento dell’opposizione sottolineano, quasi esclusivamente e in modo particolare, un unico effetto; accusano le forze di maggioranza solo di sperperare almeno 170 milioni di euro, soldi che, dicono, sarebbero potuti andare in favore delle popolazioni colpite dal terremoto in Abruzzo. Ma trascurano di mettere in evidenza la natura reazionaria dei quesiti referendari, e però sventolano davanti al muso del corpo elettorale la banderilla rossa diversiva dell’indignazione per lo spreco a tutto sfavore degli sfortunati Abruzzesi.<br />Berlusconi, molto furbescamente aveva promesso, nelle ore immediatamente successive, di valutare l’eventualità di un’unica convocazione elettorale, per poi tirarsi indietro affermando che tutto era andato in fumo per evitare di compromettere la sopravvivenza dell’esecutivo. La Lega Nord era contraria all’accorpamento perché spera che i referendum non raggiungano il quorum. La spiegazione di questo, qualche passo più avanti.<br />In seno alla maggioranza ha prevalso la volontà di non aprire un fronte conflittuale con il Carroccio. La Lega ha fatto pressione per mantenere gli orientamenti iniziali e ha vinto la sua partita. Chiamare alle urne nello stesso giorno i cittadini avrebbe potuto fungere da traino per il raggiungimento del quorum.<br />A conferma di ciò le parole pronunciate tra le macerie d’Abruzzo dal presidente del Consiglio: sarebbe stato “da irresponsabili” far cadere il governo. “Avremmo avuto, a seguito di una situazione per noi favorevole, il risultato di far cadere la maggioranza di governo. Dunque anche qui abbiamo dovuto rinunciare a quello che per noi era un fatto positivo. Dispiace che certi la interpretino come debolezza del presidente del Consiglio e del PdL, quella di aver ceduto alla precisa richiesta di una parte della maggioranza che non avrebbe accettato e avrebbe fatto cadere il governo”.<br />Tanto, a Berlusconi e ai suoi sodali, che si voti prima, dopo, che i referendum ottengano il quorum o no, interessa minimamente: tutti i venti sono a suo favore. La legge attuale comunque lo favorisce, e se passassero i sì referendari per il PdL e Berlusconi andrebbe ancora meglio: potrebbe una volta per tutte sottrarsi al cappio che la Lega Nord gli fa ondeggiare davanti, quando Bossi vuole raggiungere risultati politici favorevoli agli interessi Leghisti.<br />Il segretario del Pd Dario Franceschini attacca: “Berlusconi si piega ancora al ricatto di Bossi”. Secondo Gianfranco Fini, nelle vesti istituzionali di Presidente della Camera dei Deputati: “Sarebbe un peccato e uno spreco se per la paura di pochi il governo rinunciasse a tenere il referendum il 7 giugno, spendendo centinaia di milioni che potrebbero essere risparmiati”.<br />Da notare che entrambi i personaggi politici non fanno alcun accenno al contenuto dei quesiti referendari, e se ne guardano bene!<br />È necessario, a questo punto, prendere in considerazione i tre quesiti, e trarne alcune conseguenze.<br />Il Primo (modulo colore verde) e il Secondo quesito (modulo bianco) riguardano il premio di maggioranza alla lista più votata e innalzamento della soglia di sbarramento (attualmente al 4%).<br />Il Primo ed il Secondo quesito (valevoli rispettivamente per la Camera dei Deputati e per il Senato) si propongono l’abrogazione del collegamento tra liste e della possibilità di attribuire il premio di maggioranza alle coalizioni di liste.<br />Con l'approvazione del Terzo quesito (modulo rosso) la facoltà di candidature multiple verrà abrogata, sia alla Camera che al Senato.<br />In caso di esito positivo del referendum, la conseguenza è che il premio di maggioranza viene attribuito alla lista singola (e non più alla coalizione di liste, che viene vietata!) che abbia ottenuto il maggior numero di seggi.<br />Immediatamente salta agli occhi che rimane nella futura legge elettorale ancora la sottrazione all’elettore della facoltà di esprimere preferenze, facoltà che resta strettamente di competenza delle segreterie e delle consorterie partitiche.<br />Il premio di maggioranza non va più ad una possibile coalizione, vista l’abrogazione del collegamento di liste, ma i 340 seggi, cioè il 53,9% del totale dei seggi della Camera dei Deputati e il 55% dei seggi al Senato vengono attribuiti alla lista che raggiungesse lo zero virgola uno per cento di voti in più di ciascuna delle altre, anche se tali voti dovessero corrispondere solo al 30, al 25% dei voti, o meno.<br />Data poi la soglia di sbarramento superiore al 4%, in Parlamento arriverebbero al massimo cinque formazioni, con la lista vincente che potrebbe governare indisturbata, senza alcun bisogno di alleati. Al momento attuale, e io prevedo per tanti anni, il pallino lo ho stretto nelle sue mani Berlusconi, e ciao Bossi!, e ciao Lega Nord!, che tanto i neofascisti di Alleanza Nazionale si sono già a tempo giusto incistati nel Partito delle Libertà.<br />L’attuale legge elettorale, la porcata di Calderoli, aveva inferto al sistema democratico una ferita profonda; se passano questi referendum, questo golpe referendario, la Costituzione formale rimane invariata ma i suoi contenuti vengono definitivamente svuotati, vengono messe in atto prassi che contorcono il significato dei suoi principi e demoliscono i suoi istituti.<br />Le forze politiche tutte, di destra e di centro, attraverso le campagne di “voti utili” e di “soglie di sbarramento”, hanno innescato un processo irreversibile per liquidare per via istituzionale ogni possibilità di rappresentanza parlamentare di ogni alternativa di sinistra. Il bipolarismo tanto invocato dalle forze di destra e di centro si sta tramutando in bipartitismo, con un forte partito vincente, il cui leader ha le potenzialità e la capacità della piena manipolazione del consenso attraverso i suoi tanti mezzi di comunicazione di massa, e un mezzo partito, coacervo di democratici moderati e liberisti, facente funzioni di foglia di fico al vulnus democratico. <br />Il sistema elettorale risultante dall’approvazione dei quesiti referendari si dimostrerebbe addirittura più arbitrario della stessa legge Acerbo con cui si instaurò il regime fascista. <br /><br />Giunto al potere nel 1922, Benito Mussolini manifestò subito la volontà di modificare il sistema elettorale e di conseguenza indire nuove elezioni per la costituzione di una Camera sostanzialmente a lui favorevole (nelle elezioni del 1921 erano stati eletti solo 35 deputati fascisti).<br />La legge elettorale del 18 novembre 1923, n. 2444, meglio nota come legge Acerbo (dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, che ne fu l’estensore materiale), rispondeva a questa fondamentale esigenza.<br />Si introdusse un sistema che prevedeva la introduzione del Collegio Unico nazionale nel territorio dello Stato,<span style="font-style: italic;"> attribuendo due terzi dei seggi alla lista che avesse riportato la maggioranza relativa, mentre l'altro terzo sarebbe stato ripartito proporzionalmente tra le altre liste di minoranza su base regionale e con criterio proporzionale</span>.<br />Bisogna sottolineare che non era prevista alcuna soglia di sbarramento, e quindi una qualche voce veniva concessa anche ad oppositori di non rilevante rappresentanza.<br />La legge dopo un dibattito, che vide le opposizioni divise, fu approvata dalla Camera il 21 luglio 1923 con 223 voti a favore e 123 contrari.<br />Dopo qualche anno, la direzione di marcia autoritaria e totalitaria veniva sempre più accelerata.<br />(Perché non prevedere che questo possa avvenire anche nella nostra attuale situazione politica?) <br />Il disegno di legge sulla riforma della rappresentanza politica presentato alla Camera il 27 febbraio 1928 dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, introdusse un nuovo sistema elettorale che, negando la “sovranità popolare” e liquidando l’esperienza parlamentare, contribuiva alla realizzazione di un regime autoritario basato sulla figura del Capo del governo.<br />Il provvedimento approvato alla Camera il 16 marzo senza discussione riduceva le elezioni all’approvazione di una lista unica nazionale di 400 candidati, prevedendo la presentazione di liste concorrenti solo quando la lista unica non fosse stata approvata dal corpo elettorale. La compilazione della lista era compito del Gran Consiglio del Fascismo, dopo aver raccolto le designazioni dei candidati da parte delle confederazioni nazionali di sindacati legalmente riconosciute ed altri enti ed associazioni nazionali. (Testo unico 2 settembre 1928, n. 1993)<br />Il sistema elettivo fu poi abbandonato nel 1939; la Camera dei deputati venne soppressa ed al suo posto venne istituita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni di cui facevano parte coloro che rivestivano determinate cariche politico-amministrative in alcuni organi collegiali del regime e per la durata della stessa.<br /><br />Ma ritorniamo alle strette vicende della legge Acerbo, quella profonda riforma del sistema elettorale voluta da Benito Mussolini e realizzata nel 1923 da Giacomo Acerbo.<br />Il 4 giugno 1923 il disegno di legge veniva approvato dal Consiglio dei Ministri sotto la Presidenza di Mussolini, e il 9 giugno il testo redatto da Acerbo veniva presentato alla Camera e sottoposto all’esame della commissione, detta dei “diciotto” deputati, nominata dal presidente della Camera Enrico De Nicola secondo il criterio della rappresentanza dei gruppi.<br />A comporre la commissione tutto il Gotha politico di quel momento: <br />Giovanni Giolitti (che fungerà da presidente della commissione) e Vittorio Emanuele Orlando per il gruppo della “Democrazia”, Antonio Salandra per i liberali di destra, Ivanoe Bonomi per il gruppo riformista, Giuseppe Grassi per i demoliberali, Alfredo Falcioni per la “Democrazia italiana” (nittiani e amendoliani), Luigi Fera e Antonio Casertano per i demosociali, Pietro Lanza di Scalea per il gruppo agrario, Raffaele Paolucci e Michele Terzaghi per i fascisti, Paolo Orano (in realtà anche lui fascista) per il gruppo misto, Alcide De Gasperi e Giuseppe Micheli per i popolari, Giuseppe Chiesa per i repubblicani, Filippo Turati per il PSU, Costantino Lazzari per il PSI, Antonio Graziadei per il PCI.<br />La legge Acerbo prevedeva l’adozione del sistema maggioritario plurinominale all’interno di un collegio unico nazionale.<br />Ogni lista poteva presentare un numero di candidati pari ai due terzi dei seggi in palio (si noti come, per assurdo, tale meccanismo fu spacciato per democratico in quanto garantiva di converso alle minoranze un terzo dei seggi dell’assise parlamentare, anche nel caso fossero scese al di sotto del 33% dei suffragi), cioè 356 su 535, e la lista che avesse ottenuto la maggioranza con una percentuale superiore al 25% dei voti avrebbe eletto in blocco tutti i suoi candidati.<br />(Nota Bene: la lista che avesse ottenuto la maggioranza con una percentuale superiore al 25% dei voti! Se passano i referendum, non è prevista per la lista vincente alcuna soglia minima di vittoria, la lista ramazza il premio di maggioranza del 54% anche con il 10% dei consensi, se vincente. Si tratta di una condizione peggiore per la democrazia di quella proposta dalla legge Acerbo.) <br />I restanti 179 scranni sarebbero invece andati alle liste rimaste in minoranza, che se li sarebbero suddivisi fra loro sulla base della vecchia normativa proporzionale del 1919.<br />Il 21 luglio del 1923, la legge Acerbo veniva approvata alla Camera dei Deputati con 223 sì e 123 no: a favore si schierarono il Partito Nazionale Fascista, buona parte del Partito Popolare Italiano (tra cui Alcide De Gasperi), il Partito Liberale Italiano e altri esponenti della destra, quali Antonio Salandra; negarono il loro appoggio il Partito Comunista d’Italia e il Partito Socialista Italiano. <br />Il 18 novembre del 1923, anche il Senato del Regno concedeva il disco verde alla legge con 165 sì e 41 no, e la riforma entrava definitivamente in vigore.<br />Alle elezioni del 6 aprile 1924 il Listone Mussolini (come il “Presidente Berlusconi” negli attuali manifesti elettorali) prese il 61,3% dei voti (il premio di maggioranza, come prevedibile, scattava per il Partito Nazionale Fascista): i fascisti trovarono il modo di limare anche il numero di seggi garantiti alle minoranze, alla cui spartizione riuscirono a partecipare mediante una lista civetta (la lista bis) presentata in varie regioni e che strappò ulteriori 19 eletti, mentre le opposizioni di “centro-sinistra” ottennero solo 161 seggi, nonostante al Nord fossero in maggioranza con 1.317.117 voti contro i 1.194.829 del Listone. Complessivamente, le opposizioni raccolsero 2.511.974 voti, pari al 35,1%.<br />Questa la tesi sostenuta dallo storico Giovanni Sabbatucci, pienamente condivisibile: “<span style="font-style: italic;">L'approvazione di quella legge fu un classico caso di “suicidio di un’assemblea rappresentativa”, accanto a quelli del Reichstag che vota i pieni poteri a Hitler nel marzo del 1933 o a quello dell'Assemblea Nazionale Francese che consegna il paese a Petain nel luglio del 1940. La riforma fornì all'esecutivo lo strumento principe - la maggioranza parlamentare - che gli avrebbe consentito di introdurre, senza violare la legalità formale, le innovazioni più traumatiche e più lesive della legalità statuaria sostanziale, compresa quella che consisteva nello svuotare di senso le procedure elettorali, trasformandole in rituali confirmatori da cui era esclusa ogni possibilità di scelta</span>”.<br />L’analisi dettagliata della legge Acerbo dovrebbe risultare di monito a tutti coloro che si propongono di votare “sì” ai quesiti referendari. Ma le lezioni della Storia non sono mai sufficienti. Torniamo ai nostri giorni. Per la verità, anche Veltroni, optava per un sistema elettorale del genere ed era concorde con i promotori dei referendum, evidentemente sognando un destino, che sembra sorridere invece al cammino vincente del Cavalier Berlusconi & Soci.<br />«Il partito a vocazione maggioritaria, il voto utile, e altre sciagurate farneticazioni rientravano perfettamente in questo disegno. Non aveva capito che marchingegni del genere servono solo alla destra. Contraddicono i principi della democrazia, i democratici li rifiutano e si astengono dal voto». Come non dare ragione a queste conclusioni di Gianni Ferrara!<br />Comunque, pervicacemente, l’… ottimo stratega Massimo D’Alema dichiara di concedere un voto positivo, fiducioso che in seguito il Parlamento si azionerà per istituire una legge elettorale secondo il modulo tedesco, e la segreteria del PD, con in testa il buon Franceschini raccomanda di concedere il “sì” perché così si apriranno le voragini delle contraddizioni interne alle forze di maggioranza!<br />Sarebbe stato più opportuno per loro fermarsi alle critiche di “spendaccionismo” contro l’esecutivo, avrebbero almeno salvato la faccia! Ancora confidano di ribaltare la frittata e di godere loro dei “premi di maggioranza”: ed intanto diventano partecipi del suicidio dell’assemblea rappresentativa del Parlamento Italiano, aprendo irreversibilmente le porte ad un regime di oligarchi autoritari.<br />Il giorno 21 giugno 2009 disertiamo le urne, e lavoriamo, se possibile, per l’eliminazione del porcellum Calderoliano e per la difesa della Costituzione attraverso un vasto movimento di cittadini consapevoli che la democrazia è in pericolo!Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-21139197779931612082009-04-30T02:47:00.000-07:002009-04-30T03:08:05.125-07:00Agostino Gemelli, "un uomo veramente nostro"<span style="font-weight: bold; color: rgb(51, 51, 255);">Felice Accame</span><br /><br /><br /><div style="text-align: right; font-style: italic;">Caro Presidente. Ti mando in via confidenziale una lettera dell'accademico Bottazzi. La nomina di padre Gemelli (nomina a membro dell'Accademia d'Italia, NdC) farebbe un'ottima impressione, inoltre premieremmo un uomo di valore e di cu io conosco troppo intimamente il pensiero politico. Sarebbe opportuno che la cosa avvenisse prestissimo, anche perché è quasi certo che nel prossimo Conclave egli sarà nominato cardinale (ma così non sarà. NdC). Con i tempi che corrono avere un uomo veramente nostro attorno al successore di San Pietro sarebbe cosa utile. Bisogna che tu faccia un atto di autorità presso Federzoni, il quale, più filo-giudaico che fascista, non ha eccessive simpatie per Gemelli. Dobbiamo, caro Presidente, valorizzare quegli uomini che in ogni momento ci possono servire. Ti aggiungo inoltre che in Germania mi hanno parlato di Gemelli con molta simpatia. Devoti e affettuosi saluti. Farinacci<br /></div><br /><div style="text-align: right;">Lettera di Roberto Farinacci a Benito Mussolini, datata 20 marzo 1935,<br />in A. Petacco, <span style="font-style: italic;">L'archivio segreto di Mussolini</span>, Mondadori, Milano 1997, pagg. 82-83.<br /></div><br /><br />Nel 50° anniversario della morte di Agostino Gemelli (1878-1959), fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Milano, e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, l’Università Cattolica stessa dedica alla figura del noto francescano tutta una serie di iniziative Fra queste, l’85° Giornata Universitaria – con inaugurazione di una mostra e di una esposizione permanente –, un “incontro di spiritualità francescana”, un convegno “storico” intitolato “Nel cuore della realtà”, un concerto e la presentazione di un libro dedicato a Gemelli ed al suo laboratorio di psicologia.<br />Il giorno prima che l’università in questione si pagasse la sua bella pagina di pubblicità, il “Corriere della Sera” devolveva all’iniziativa una pagina intera nell’inserto milanese. In essa, fotografie e box testimoniavano avvalorando: Gemelli frate nel 1906, Gemelli cappellano militare nella prima guerra mondiale, Gemelli gioviale ed amichevole in giardini piacentini nel 1929, Gemelli, nel Laboratorio di Psicofisiologia Applicata presso il comando supremo delle Forze Armate, Gemelli aviatore e studioso dello stress del volo e, infine, Gemelli dandy – roba da far invidia più a Oscar Wilde che a San Francesco d’Assisi. La copiosa messe di santini coronava un articolo di Aldo Grasso – che guarda caso è docente all’Università Cattolica – il cui titolo strillava bicolore al centro della pagina reclamizzando “Il vero Gemelli”.<br /><br />Ora, siccome a questa “straordinaria figura di uomo, scienziato, costruttore di opere al servizio della Chiesa e della società italiana” – come dice l’attuale rettore dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi – e a questa “figura esemplare” da riproporre ai giovani – come dicono i curatori della mostra, Paolo Biscottini e Paolo Dalla Sega – l’articolo di Grasso intende restituire tutta la sua “verità”, e siccome l’articolo di Grasso, come peraltro l’intero contorno, soffre, per così dire, di alcune manchevolezze, ritengo opportuno provvedere a colmarle. Consapevole del fatto che, se quello raccontato da Grasso – il Gemelli “apripista di nuove discipline sul mondo dei media”, “psicologo del cinema”, “filmologo” e “percettologo” – è quello “vero”, ineluttabilmente ne consegue che il mio sarà quello “falso”.<br />Mi limito ad una minima serie infernale di dieci citazioni e lascio che ciascuno – studenti dell’Università Cattolica, professori più e meno in cattedra, abbindolati e assertori convinti – se la vedano con la propria coscienza.<br /><br />1. Ormai in guerra, siamo alla prima, Gemelli scrive: “La patria chiama tutti alla sua difesa. Cessino le discussioni, i dissidi…(…) Oggi non c’è più luogo che per il proprio dovere, per tutto il proprio dovere compiuto con sacrificio, sino all’eroismo. Noi cattolici, che sino a ieri abbiamo lavorato per impedire la guerra, oggi dobbiamo dare tutta la nostra vita, tutta la nostra attività, tutto il nostro cuore, tutto il nostro ingegno a chi tiene nelle sue mani i destini della patria” (in “Vita e Pensiero”, 1, 10, 1915).<br /><br />2. La più famosa. All’indomani del suicidio di Felice Momigliano (1866-1924), Gemelli scrive:<br />“se insieme con il positivismo, il libero pensiero e il Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio ? Sarebbe una liberazione” (in “Vita e Pensiero, 10, 15, 1925).<br /><br />3. “Pare” – bontà sua – “che la Provvidenza particolarmente insista nell’affidare a Mussolini missioni di pace” (in “Vita e Pensiero”, 19, 7, 1933).<br /><br />4. Contro le sanzioni della Società delle Nazioni di Ginevra, ecco pronte le argomentazioni per giustificare la futura guerra nazifascista: “Nell’ora delle minacce, quando il bieco massonismo internazionale, la demagogia comunista, la forza prepotente di chi gavazza nell’abbondanza e il fariseismo di protestanti, congiuravano in un poco nobile e poco ideale connubio, alzando una pretesa spada di Damocle sul nostro capo, l’Italia ha saputo conservare una tranquillità così operosa e serena, un atteggiamento così concorde e virile, da dimostrare a quale altezza politica l’abbia saputa elevare in pochi anni il fascismo”.<br />E poi: “V’è alcuno che crede che i popoli non aumentino, o v’è chi crede che i territori aumentino con essi ? C’è chi pensa che i poveri hanno il dovere di non aspirare a migliorare le loro condizioni, anche se il contatto con i ricchi ha loro manifestato gli abissi della loro povertà e le laute soddisfazioni dell’altrui agio ? Si può per molto tempo pretendere che un popolo, che aumenta ogni anno incontenibilmente, si voti alla miseria e alla morte ? Aveva sbocchi demografici e mercantili: li hanno chiusi ! Aveva acquitrini secolari: li ha bonificati ! Aveva il deserto libico: gli ha strappato acqua e terre per nuovi oliveti ! Ha combattuto tredici anni una dura lotta per redimersi con il lavoro più energico dalla schiavitù di una terra non ricca: ne ha fatto un giardino ! E c’è ancora chi si illude di chiudere la porta a chi chiede nuovo lavoro, nella speranza che questo secolare dissodatore di terre, tagliatore di boschi tropicali, pioniere, in ogni latitudine, di civiltà e di progresso, s’acquieti nella disoccupazione e rifiuti al suo corpo perfino la speranza di un tozzo di pane ?” (in “Vita e Pensiero”, 1935)<br /><br />5. Gemelli festeggia gli sterminii in Abissinia: “Il nuovo anno si apre. Non può che essere l’anno degli Italiani. L’aprono essi registrando all’attivo atti che nessuna storia di nessun popolo può registrare” (in “Vita e Pensiero”, gennaio 1936).<br /><br />6. Nel 1937, Roberto Farinacci tiene una conferenza su <span style="font-style: italic;">La Chiesa e gli ebrei</span>, in occasione dell’inaugurazione annuale dell’Istituto di cultura fascista (Tipografia del “Tevere”, Roma 1937) richiama la chiesa alla sua tradizione antisemita e Gemelli risponde positivamente. A conferma, lo stesso Farinacci in “Il regime fascista” del 5 agosto 1938, cita Gemelli come cattolico di fiducia, che professa apertamente il proprio “razzismo antisemita” .<br /><br />7. Il “Corriere della Sera” dell’11 gennaio 1939 relaziona del discorso di padre Gemelli, il giorno prima, all’Università di Bologna, commemorando Guglielmo da Saliceto, e dice che “il pubblico presente aveva sottolineato con particolari applausi quando l’oratore aveva espresso il pensiero della Chiesa nei riguardi degli ebrei, ed aveva fustigato severamente coloro che, oltre frontiera, seguivano la politica della mano tesa”. Riportando, altresì, quella che Ernesto Rossi definì la “patetica conclusione del frate francescano”: “Tragica, senza dubbio, e dolorosa la situazione di coloro che non possono far parte, e per il loro sangue e per la loro religione, di questa magnifica Patria; tragica situazione in cui vediamo, una volta di più, come molte altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una Patria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo”.<br /><br />8. Protesta contro chi “snatura” la “grande figura di Pio XI”: perché “Il Pontefice defunto”, sia ben chiaro, “non ha fatto né della democrazia, né del filogiudaismo, né dell’antitotalitarismo” (in “Vita e Pensiero”, 1939).<br /><br />9. Gemelli e Oswald Kroh, presidente della società tedesca di psicologia, nel giugno del 1941, concludevano il convegno di psicologi italiani e tedeschi, “ambedue rivolgendo il saluto ai soldati che combattono in cielo, in mare e in terra, e ambedue esprimendo la convinzione che, sotto la guida del Duce e del Fuehrer, le truppe dell’asse riusciranno a dare all’inquieta Europa un nuovo assetto fondato sulla giustizia, sul lavoro, sulla reale collaborazione dei popoli” (da un resoconto di G. Pizzuti, citato da Mecacci).<br /><br />10. Ma non si potrà mai accusare di lentezza. In un articolo intitolato 25 luglio 1943, in “Rivista di psicologia”, 39, 1943 (a firma “La redazione”), Gemelli scrive: “L’atteso domani è oggi finalmente realtà, a danno e scorno soprattutto di quegli ‘intellettuali’, molti, troppi, prostituitisi ad un pagliaccesco ed immorale regime, o per conformismo imbecille, o per congenita vigliaccheria, o per ottusità morale, o – caso più frequente – per soddisfare miserabili ambizioni e sciocche vanità, per lucrare cariche ed onori, privilegi e quattrini”.<br /><br />Le citazioni sono tratte da G. Israel e P. Nastasi, <span style="font-style: italic;">Scienza e razza nell’Italia fascista</span>, Il Mulino, Bologna 1998; L. Mecacci, <span style="font-style: italic;">Psicologia e psicoanalisi nella cultura italiana del Novecento</span>, Laterza, Roma–Bari 1998 e E. Rossi, <span style="font-style: italic;">Il manganello e l’aspersorio</span>, Parenti, Firenze 1958.<br />Parlando di Gemelli, perfino Giulio Andreotti c’è andato cauto, parlando di una mentalità “che si può chiamare una specie di machiavellismo cattolico, del fine giustifica i mezzi, sia pure applicato con le migliori intenzioni” (<span style="font-style: italic;">Intervista su De Gasperi</span>, a cura di A. Gambino, Laterza, Roma-Bari 1977, pag. 31), tanto è vero che, “scoppiata la seconda guerra mondiale”, come dice Mecacci, “Gemelli assunse posizioni nettamente filofasciste; quando però divenne ormai chiara la fine del fascismo (e soprattutto dopo il 25 luglio 1943), egli arrivò persino a favorire all’interno dell’Università Cattolica la lotta clandestina per la liberazione nazionale”.<br />Da un po’ di anni a questa parte l’offensiva dei ripulitori cattolici si è fatta arrembante. All’insegna della “complessità”, hanno cominciato a parlare di un Gemelli “strategicamente” fascista – soltanto “strategicamente” – per trasformarlo in poche ben dosate battute in “antifascista”, in un “abilissimo manovratore”, in un “giocatore di equilibrio” fra pieghe mai purulente del regime. E’ così che ne è venuto fuori il “vero Gemelli”, amputato di parecchio – della gran parte andata a male – ma di quel tanto che basta affinché, tornando presentabile, un “pubblico” di fiduciosi se lo elegga a modello.<br /><br />Le “interpretazioni” benevole, tuttavia, sono un conto; i documenti che restano – e che basta leggere – sono tutt’altro conto. Ma non solo: le interpretazioni benevole – per quanto benevole siano – ben che vada portano a considerare Gemelli come un “opportunista ideologico”, categoria che, rispetto a quella di “vero fascista”, ha soltanto l’ingrediente in più della malafede.Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-4648466812300193462009-04-14T07:09:00.000-07:002009-04-14T07:25:21.185-07:00A proposito di StalinMartedì 17 marzo, nella libreria Odradek di Roma, ho moderato la discussione sul libro di Domenico Losurdo <span style="font-style:italic;">Stalin. Storia e critica di una leggenda nera</span>. Questo il testo del mio intervento.<br /><br />Non sono uno storico, né un politologo. Mi è sempre dispiaciuto non appartenere alla prima categoria, e come molti, usurpo spesso l'appartenenza alla seconda. Più che uno storico mancato, mi considero un loggionista della storia, e in questa veste, forse, la libreria mi ha incaricato di organizzare questo incontro per favorire una discussione sul libro di Domenico Losurdo: <span style="font-style:italic;">Stalin. Storia e critica di una leggenda nera</span>.<br /><br />Con Giacomo Marramao e Nicola Tranfaglia, che ringrazio, a parlare di un libro che, sebbene dal titolo faccia pensare a una biografia – ma i filosofi sono restii a scriverne di biografie, anche se spesso ne sono avidi lettori – nel sottotitolo avverte che si tratta semmai di una specie di “critica dell’ideologia”, proprio del tipo di ideologia più spiccia e diretta: quella dell’abominazione, della <span style="font-style:italic;">damnatio memoriae</span>.<br />Stalin come pretesto, uno schermo su cui proiettare i cangianti umori di pubbliche opinioni, i mutevoli e mutati giudizi di sottoposti e gregari, <span style="font-style:italic;">opinion makers</span> soprattutto, i grandi maghi dello stereotipo.<br /><br />Tra un po' toccherà a Mao. Scrive Federico Rampini, in <span style="font-style:italic;">L'ombra di Mao. Sulle tracce del Grande Timoniere</span>: Mao «in compagnia di Adolf Hitler e di Josif Stalin, per formare insieme a loro la mostruosa Trinità nel Pantheon negativo dei più grandi criminali del XX secolo». <br /><br />La storia come Storia di grandi criminali, storia fatta a suon di Libri neri. Non so se è il pubblico a volerlo, ma certo la produzione di "mostri gemelli" – come li chiama Losurdo – è un'industria che non conosce crisi, da Pol Pot, fino a Milosevic (<span style="font-style:italic;">Hitlerosovic</span> titolava "Diario"), fino a Saddam, in un crescendo isterico di scambi figura-sfondo, in cui la psicopatologia rimuove contesto e pregresso, cioè la storia.<br /><br />Con Marx la storia cessò di essere la cronaca di condottieri e di alcove, diventando storia di lotta di classi. Ora decade a compilazione di cartelle cliniche. <br />Dice Canfora, nel contributo al volume: quando riusciremo a parlare pacatamente e in maniera distaccata di Stalin come possiamo fare del sanguinario Robespierre? Certo, il vero problema è «il nesso tra Rivoluzione e Terrore, il duro problema» da Robespierre a Stalin passando per Lenin. Ma questo è un problema filosofico, temo.<br /><br />Intanto, lo stereotipo, la leggenda. Ma le leggende contemporanee, di cui si occupa Marc Bloch – e di cui in Italia si è occupato Cesare Bermani – non hanno come genere prossimo le leggende metropolitane – le <span style="font-style:italic;">urban legends</span> – bensì quelle confezionate in tempo di guerra dagli Stati maggiori, come la "leggenda dei franchi tiratori" diffusa dall'esercito tedesco contro la popolazione belga nella Grande guerra, al fine di incrudelire il proprio esercito occupante.<br /><br />Voglio dire che le leggende contemporanee, <span style="font-style:italic;">questa</span> "leggenda nera", non sono una produzione inconsapevole di un immaginario collettivo, bensì il portato di politiche pianificate di disinformazione. E ce n'è voluto perché il vincitore di Hitler finisse con l’essere accomunato a Hitler.<br /><br />Ho definito questo libro una sorta di critica dell'ideologia di cui un filosofo come Losurdo si è voluto incaricare di restaurare non certo la figura di Stalin, ma un corretto rapporto con le figure e i processi storici, andando a cogliere i modi della mistificazione.<br /><br />Ogni tanto qualcuno parla di "macabra aritmetica" con riferimento alla contabilità delle morti relative ad eventi e processi storici. Credo sia un nodo ineludibile, visto che la propaganda e coloro che la riproducono sono soliti alterare proprio la partita doppia della contabilità dei morti, addebitando generosamente al "mostro", e senza beneficio d'inventario, tutte le morti coeve, anche quelle dovute agli avversari (come i 750.000 morti cambogiani dovuti ai bombardamenti americani e non a Pol Pot).<br />Personalmente sono convinto che la Storia la si scrive e la si legge con l'aiuto delle carte geografiche ma anche di una calcolatrice, per contare i morti, certo. Per avere cioè cognizione dell'<span style="font-style:italic;">ordine di grandezza</span> dei fenomeni, ma anche per poterli attribuire a una parte o all'altra sulla base di documenti e testimonianze, e sul loro controllo incrociato. Una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Col risultato di dissacrare la storiografia dei piaggiatori o dei pugilatori a pagamento. Finché è possibile. Ma il sistema mediatico è assolutamente impermeabile e refrattario a queste sollecitazioni. Le ignora, e basta.<br /><br />Paradossalmente, a mitigare l'unilateralità delle ricostruzioni di comodo può occorrere la <span style="font-style:italic;">fiction</span>: il "bravo" sceneggiatore, anche prevenuto, è costretto a ricostruire la psicologia del "mostro", con la tecnica del chiaroscuro, rilasciando qualche tratto "umano" – anch'esso ugualmente falso e mistificante, naturalmente.<br /><br />O l'eterno presente della civiltà dell'immagine che recupera e assortisce misericordiosamente personaggi lontani nel tempo, ucronia e utopia, come il dipinto di tre artisti cinesi che assembla 103 personaggi storici sotto lo sguardo di Dante Alighieri a mo' di regista. Gira in rete (http://<a href="http://tv.repubblica.it/copertina/la-tela-dei-famosi/356?gallery">tv.repubblica.it/copertina/la-tela-dei-famosi/356?gallery</a>), e vi si possono cogliere Marx e Nietzsche, Stalin e Aristotele; Hitler e Mussolini che ascoltano Beethoven che suona il piano...<br /><br />Claudio Del BelloOdradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-41813361767896668942009-02-15T10:41:00.000-08:002009-02-15T10:49:32.390-08:00Nell’arsenale della reazioneSul calco di una canzone di Adriano Celentano del 1967, Alberto Figliolia, Davide Grassi e Mauro Raimondi intitolano <span style="font-style:italic;">Eravamo in centomila</span> un loro libro dedicato alla storia del derby calcistico fra Inter e Milan. Dando anche il loro contributo all’agiografia dell’impresa sportiva, nello scavare e nello scovare tra ricordi freschi, men freschi e ricordi dei protagonisti, capita ai tre autori di cedere al fascino di un’analogia – quella fra una passione sportiva divisa più e meno equamente nelle grandi città e l’espressione delle convinzioni politiche. E’ così che l’eventualità di un’unica squadra di calcio chiamata a rappresentare un’intera città viene considerata una “dittatura” e che il derby, allora, viene eletto a simboleggiare la “democrazia”, rappresentando – dicono loro – “una sorta di bipolarismo calcistico, l’esaltazione della dialettica, della libertà”.<br /><br />Sono tre anche gli autori di <span style="font-style:italic;">Nati per credere</span>. Sono il neuroscienziato Giorgio Vallortigara, lo psicologo cognitivo Vittorio Girotto e il filosofo della scienza Telmo Pievani. Se dovessi farmi un’idea delle ragioni del titolo del loro libro da una dichiarazione pubblica di Vallortigara rimarrei piuttosto perplesso. Sarebbe “probabile” – a quanto afferma il neuroscienziato – che “la selezione naturale abbia premiato tra i nostri antenati proprio quelli in grado di vedere in un fenomeno non una conseguenza naturale ma l’azione di qualcuno”. Sarebbe pertanto in ragione di ciò che il nostro cervello è predisposto a credere – e il fatto che “i bambini sino a dieci anni tendono spontaneamente a spiegare col creazionismo l’origine degli animali”, qualsiasi siano le convinzioni dei genitori, lo dimostrerebbe. Grazie, poi, al fatto che il nostro cervello distingue fra “oggetti del mondo fisico” e “creature animate”, noi tutti saremmo “dualisti intuitivi” – da cui, giocoforza, deriverebbero le nostre convinzioni in ordine alla differenza tra corpo e spirito – gli altri esempi sono miei –, oggetto e soggetto, angeli e demoni, Inter e Milan, perché no ? mente e cervello e via dicotomizzando.<br /><br />Sono predisposto a credere che un berlusconiano e un veltroniano possano godere di vantaggi evolutivi più di un anarchico cassintegrato sfrattato senza fissa dimora e denunciato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Ritengo probabile che il berlusconiano e il veltroniano possano trovare lavoro più facilmente, che questo lavoro sia più remunerativo, che questa remunerazione in più consenta loro un’alimentazione più sana, cure più adeguate, vacanze più beate, abbronzatura più albicoccosa, pelle più profumata e – stante quanto sopra – finanche l’opportunità di conoscere personalmente Mara Carfagna o Sabrina Ferilli, tramite le quali, sperando nel principio che da cosa nasce cosa, replicare il proprio patrimonio genetico mettendo al mondo figli patrimonialmente predisposti a continuare a credere in berlusconi e in veltroni.<br />Ma come non sono predisposto a credere che un bambino arrivi a dieci anni essendo in grado di sottoporsi ai test dei neuroscienziati senza aver dovuto sorbirsi un lungo processo di adattamento ideologico di cui i genitori sono soltanto in parte i protagonisti attivi, non sono affatto disposto a credere che questa propaganda per il dualismo universale sia gratuitamente frutto di una scienza neutrale. La causa, l’effetto, il mezzo, lo scopo, il naturale, l’artificiale, il soggetto, l’oggetto e via dicendo sono costruzioni mentali al cui buono e cattivo uso veniamo tutti addestrati meticolosamente – nella consapevolezza o nell’inconsapevolezza dei nostri addestratori.<br />Non vorrei che tutte queste dotazioni assegnate al cervello, come certi accessori diventati di serie nelle automobili che a viva forza ci vogliono rifilare, nascondano secondi fini – ratificare visioni del mondo giustificandole in una chiave evoluzionista che, usata impropriamente, ne risulterebbe screditata.<br /><br />Per quanto folle possa sembrare, attualmente sono ancora attive – particolarmente attive – numerose agenzie formative antidarwiniane. Il perché e il come ciò sia avvenuto già nel 1859, all’indomani della pubblicazione de <span style="font-style:italic;">L’origine delle specie</span> di Charles Darwin, è ben raccontato da Nicola Nosengo e da Daniela Cipollini in <span style="font-style:italic;">Compagno Darwin</span>, da dove traggo due giudizi che non lasciano dubbi su ciò che sarebbe seguito in considerazione degli enormi interessi incancreniti che il libro veniva a disturbare. Recensendolo sul Times del 26 dicembre 1859, Thomas Huxley disse che <span style="font-style:italic;">L’origine delle specie</span> era un “fucile Whitworth nell’arsenale del liberalismo” e Karl Marx disse che, “nonostante tutti i limiti”, è in quel libro che, “per la prima volta”, “la teleologia nella storia naturale riceve un colpo mortale”.<br /><br />Nella misura in cui Marx aveva ragione sta tutto il nostro sgomento di fronte alle stolide e pretestuose aggressioni di cui, alla faccia di Marx, il pensiero evoluzionista fu fatto oggetto nel corso degli anni a venire – senza soluzione di continuità fino ai nostri tribolatissimi giorni così apparentemente neuroscientifici, così psicognitivisti e così epistemologici nonché ancora beceramente industriati da retrivi padroni alla difesa dell’ordine costituito costi quel che costi in termini di sensatezza.<br />Dalle “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati per la scuola secondaria di primo grado” fornite dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Letizia Moratti – siamo nel 2004 - venivano a mancare, rispetto al passato, alcune voci come “Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana”, “Evoluzione della Terra”, “Comparsa della vita sulla Terra” e “Struttura, funzione ed evoluzione dei viventi”. E’ ancora una cronaca che colgo in <span style="font-style:italic;">Compagno Darwin</span>. Alle proteste ed alle interrogazioni parlamentari che ne seguirono – e che, in parte, raggiunsero lo scopo di far recedere il ministro dalle sue intenzioni –, la Moratti rispose che “le Indicazioni nazionali privilegiano (…) le narrazioni fantastiche, i cosiddetti miti delle origini, che favoriscono l’approccio del bambino al dato scientifico e che, adeguatamente problematizzati, consentono di individuare gli elementi qualitativi e quantitativi, funzionali di qualsiasi discorso scientifico”. Il che valeva a dire che, d’ora in poi, a scuola si sarebbero raccontate balle in piena consapevolezza di chi le raccontava e che queste balle, non si sa bene in virtù di quale magia, avrebbero aperto la strada alla scienza nelle menti degli studenti futuri. Balle oggi, insomma, per una verità domani.<br /><br />Il derby, per iniziativa di Edward Stanley, conte – per l’appunto – di Derby, nasce nel 1780 come corsa di cavalli di tre anni all’ippodromo di Epsom, in Inghilterra. Parecchi anni dopo, nel 1883, Umberto I istituì il Derby Reale con il preciso scopo di incentivare l’allevamento dei purosangue e delle corse dei cavalli in Italia. Ci son voluti almeno altri settant’anni perché il termine, con una scivolata semantica piuttosto cospicua, venisse metaforizzato fino al punto di designare la sfida calcistica tra due squadre della stessa città. Che ciò abbia a che fare con un processo di democratizzazione è ovviamente escluso. Il bipolarismo calcistico – come il bipolarismo politico – è il risultato di un processo che della democrazia è più o meno esattamente l’opposto: nella logica dei grandi monopoli, dopo una selezione niente affatto casuale del “più adatto”, vengono eliminate tutte le altre alternative – in rappresentanza della miriade di società calcistiche espresse dai cittadini – e vengono rafforzate due grandi imprese ideologiche che, nella loro presunta contrapposizione, riescano ad assorbire la quasi totalità delle risorse disponibili. Raccontarla in altro modo – privilegiando le consolatorie narrazioni fantastiche e reiterando i cosiddetti miti delle origini – è come arrendersi all’evanescente spiegazione di una religione, al suo potere politico ed al modello di società classista che ne deriva. La storia delle società di calcio è storia di fagocitazioni e di ibridazioni identica a quella di qualsiasi altra società di capitali. Quando gli schieramenti sono due e due soli, le differenze di origine – quelle differenze che, un tempo, potevano essere di classe, di ceto, di tradizioni e di stili di vita – si riducono fino quasi a sparire. E’ il Derby corso dai partiti compattati in due blocchi per raggiungere l’ambito traguardo del ceto medio. La dialettica potrà avvenire solo fra tesi ed antitesi – niente sintesi, stasi e nessun superamento – e di libertà potrà solo parlare chi, consapevolmente o meno, del sistema sarà complice.<br /><br /><br /><br /><span style="font-weight:bold;">Note</span><br /><span style="font-style:italic;">Eravamo in centomila</span> è edito dai Fratelli Frilli, Genova 2008. <span style="font-style:italic;">Nati per credere</span> è edito da Codice, Torino 2008 e <span style="font-style:italic;">Compagno Darwin</span> è edito da Sironi, Milano 2009. Per la dichiarazione di Vallortigara, cfr. Roberto Bonzio, <span style="font-style:italic;">Darwin “difficile” per evoluzione nostra mente, dice studioso</span>, in it.notizie.yahoo.com<br />Della gravità della situazione in atto testimonia anche la recensione al minimo sindacale che Dario Fertilio ha dedicato (nel “Corriere della Sera” del 14 febbraio 2009) a Compagno Darwin. Si complimenta per il titolo – che sarebbe “gradevole”, “induce al sorriso”, “fa giovane”, “sdrammatizza piacevolmente lo scontro tra evoluzionisti e creazionisti” – e, nel veleno della coda, dice che “però il diavolo si nasconde nei dettagli”. E in che consisterebbe questo “diavolo” ? Dove cascherebbero, insomma, questi asini di autori ? Risposta di Fertilio: nel dichiararsi “infallibilmente certi di discendere dagli oranghi, dal ‘brodo primordiale’ eccetera…”, insomma, nel qualificarsi come “darwinianamente corretti”. Ora, dal momento che le cose stanno esattamente al contrario – ovvia e neppur doverosa la premessa, se mai è la leggerezza del titolo che rischia di far perdere qualcosa in termini di tara al testo (il creazionismo non è una teoria scientifica che possa concorrere con l’evoluzionismo: non c’è alcunché da sdrammatizzare) –, non mi è difficile scorgere in questa ingenua richiesta di darwinismo <span style="font-style:italic;">scorretto</span> il corrispettivo di tutte le volute e men volute misinterpretazioni dell’evoluzionismo – bimbi creazionisti e dualisti per nascita inclusi.<br /><br /><span style="font-weight:bold;">Felice Accame</span>, Radio Popolare, 15 febbraio 2009Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-35478699375066696392008-11-16T13:46:00.000-08:002008-11-16T13:52:40.399-08:00Felice Accame<br />Radio Popolare, 16 novembre 2008<br /><br /><br />L’astrofisico e la velina sulla via dell’emancipazione<br /><br />Difficile, a volte, è capire se certe forme di cultura umana vadano in una direzione o in un’altra. Se la Chiesa Cattolica, per esempio, stia andando verso l’accettazione dei risultati della scienza o non, piuttosto, in una direzione opposta, ovvero alla conferma dei propri dogmi su basi più solide di quanto, per l’appunto, il lavorio della scienza possa averle rese. O se la donna, faccio un altro esempio che con le prese di posizione della Chiesa ha parecchio a che fare , stia andando verso l’emancipazione.<br /><br />Nel relazionare sul convegno organizzato dall’Accademia Pontificia sull’”Evoluzione dell’universo e della vita”, l’astrofisico Piero Benvenuti filosofeggia alla Sperindio. Dice che rispetto ai tempi di Galilei “spazio” e “tempo” non possono essere più considerati come “entità assolute”, ma “parte integrante della realtà fenomenica”. Mentre, in realtà, ai tempi di Galilei come peraltro ai tempi nostri ed ai tempi precedenti il problema è sempre quello di darne una definizione convincente una volta che, invece che categorie mentali, queste vengano considerate come qualcosa di fisico. Dice che il famoso Big Bang da cui avrebbe avuto origine il nostro universo non avverrebbe “all’interno dello spazio e in un determinato istante”, ma avverrebbe “assieme” allo spazio e al tempo e che a questa profonda verità – che lo sa Dio che significa: questa contemporaneità di evento e categorie per descriverlo ipostatizzate puzza tanto di creazionismo di contrabbando – si sarebbe giunti “su basi scientifiche” grazie alla teoria della relatività di Einstein. A Benvenuti questo discorrere fintamente saputello e oscuramente metaforico serve per evitare che, in quello che per lui è il dibattito fra scienza e fede – dibattito il cui senso a me è sempre sfuggito: o uno fa della scienza o uno fa un atto di fede, sono due attività ben diverse in dipendenza di atteggiamenti ben diversi -, si cerchi di interpretare la creazione divina come “inserita nel tempo”, ovvero come un fenomeno qualsiasi raccontato da qualcuno. Così, però, Benvenuti rischia di buttare nel cesso anche la Bibbia e, allora, lesto lesto corre ai ripari. Se si cadesse nell’errore di inserire la creazione divina nel tempo, dice, “sarebbe come leggere il racconto della Genesi e il Prologo di Giovanni in una subdola forma letterale, trascurando il vero scopo per il quale sono stati scritti”.<br />Ora, lasciando da parte il puerile appello al “vero“ scopo per cui una o l’altra parte della Bibbia è stata scritta – lo sa lui ? E Come fa a saperlo ? Chi glielo dice che il libro di Isaia o il Deuteronomio non fossero uno sproloquio poetico di un movimento surrealista del tempo che fu ? -, quello che più mi preoccupa è il dare per scontato che la forma letterale di un testo sia subdola di principio. Io, per esempio, ho letto il suo articolo e l’ho letto innanzitutto nella sua forma letterale, anche perché sfido chiunque a fare diversamente e sfido il suo autore a dirmi che avrei dovuto leggerlo in tutt’altra chiave. Ritengo dovere di chiunque, di fronte ad un testo qualsiasi – Bibbia inclusa – leggere a partire dalla forma letterale del testo tenendo ben presente, tuttavia, che questo cosiddetto letterale non è così semplice da definirsi. In poche parole: prima leggo il testo, poi mi pongo il problema se le parole che lo compongono non designino anche qualcos’altro oltre a quello che ho capito. Nessuna persona sensata – tornando a casa e trovando sulla porta un cartello con scritto “Fuga di gas: non suonare il campanello” - può permettersi di ignorare il significato letterale di un’espressione per passare subito a congetturare sui possibili significati nascosti, mettendo serenamente il dito sul campanello, premendo, e facendo saltare in aria l’intero caseggiato.<br /><br />Dal Talmud, dal Libro dello splendore, volendo anche da un passo di Isaia (34, 14) e da altre fonti, ci si può fare un’idea di Lilith – del tipo “chi la conosce la evita, ma tant’è”. Prima moglie di Adamo – che come un intellettuale qualsiasi, allora, avrebbe dato dentro la vecchia per prendersene una nuova, Eva, anche perché questa Lilith ad un dato momento si è messa in testa di non volergli più “star sotto” -, demone infernale, lussuriosa, notturna, pelosa e zoccoluta, Lilith incarnerebbe la femmina che “sfinisce sessualmente il maschio” senza, tuttavia, restarne incinta. Nella seconda metà dell’Ottocento, questa Lilith – o, meglio, una sua versione “light”- ricompare nell’immaginario occidentale: Dante Gabriele Rossetti le dedica il ritratto di una sua amante ex prostituta e una poesia, Remy De Goncourt le intitola una commedia e un altro pittore, l’americano Kenyion Cox, le dedica un suo quadro.<br />La Lilith light, ovviamente né troppo pelosa né zoccoluta, si accontenta di sedurre i maschi e di ridurli in suo potere, possibilmente conducendoli alla rovina e auspicabilmente al suicidio.<br /><br />Dopo essersi occupata di perfide e vittime più e meno bellicose a vario titolo, Valeria Palumbo intitola alle Figlie di Lilith un libro dedicato alle “emancipate non emancipazioniste”, ovvero alle “ribelli per istinto o necessità”, siano esse grandi cortigiane, attrici, ballerine, scrittrici di romanzi erotico-sentimentali, seduttrici, pittrici, modelle, ereditiere o “sartine intraprendenti” che “rivoluzionando la loro, hanno cambiato la nostra vita”. Incrocia, quindi, tratti biografici ben selezionati di una serie di fanciulle: da Valentine de Saint Point, l’autrice del Manifesto della donna futurista, a Maria Volpi, meglio nota con quel suo pseudonimo di scrittrice, Mura, che già in quanto tale, ricordando una contessa russa che si lasciava alle spalle una scia di sangue, era già motivo di scandalo; dalla pittrice Tamara de Lempicka alla Bella Otero, dalle attrici Francesca Bertini a Eleonora Duse, transitando affettuosamente nei dintorni dei travagliosi talami di molte altre profanatrici di tabù.<br />Palumbo rinuncia sagacemente a trovare un “inizio” a queste sue storie e neppure una linearità – un compito senza speranza. Ma, come tutti noi, può dirsi certa che “a cavallo di Ottocento e Novecento, in Europa e negli Stati Uniti, qualcosa cambiò” e cambiò – come il mito della femme fatale che, da letterario, si trasformò in modello di comportamento per chi, in virtù del pelo sullo stomaco o del censo, poteva permetterselo – tramite il cinema, che alle grandi masse aprì gli orizzonti sulla perversità di una Lulù di Wedekind o sulla vampireschità di una Theda Bara.<br /><br />Secondo Stephen Hawking, intervenuto al convegno dell’Accademia Pontificia, entro breve tempo la scienza risponderà a domande come “Perché siamo qui ?” e “Da dove veniamo ?”. Involontariamente o meno, l’astrofisico inglese, inserendo la finalità e ipostatizzando una sorta di origine primigenia nella domanda, contraddice la procedura scientifica e quindi dà una mano al Papa. . E’ il caso, pertanto, della scienza che, rinuncia alle proprie prerogative per tornare verso la religione. Non è impossessandosi delle domande del credente che lo scienziato diventi migliore scienziato. Suo compito sarebbe, se mai, mostrare come queste domande non abbiano senso e che, dunque, è sbagliato porsele.<br /><br />Le direzioni, o quel che a noi ogni tanto piace vedere come tali, cambiano: c’è di mezzo la volontà del soggetto – sia esso singolo o collettivo -, c’è di mezzo la volontà altrui e quell’insieme di troppo ricche interrelazioni che, per cavarcela alla svelta non senza autoingannarci, chiamiamo caso. Quel poco di storia che abbiamo sotto il naso ci insegna come sia difficile fare previsioni in ordine ai movimenti culturali: vanno a sinistra, ne siamo sicuri, e ce li ritroviamo a destra; vanno avanti e, invece, all’improvviso sono tornati indietro. Dipende sempre dai criteri che si applicano per dire che una cosa è di qua, di là, avanti o indietro.<br />“Emancipare” è parola che deriva dal latino: il “mancipium” era l’atto di acquisto di una proprietà, il “prendere in mano”. “Scienza” e “donne” sono fra i tanti soggetti storici che tentano di sfuggire ai loro storici proprietari, Chiesa e maschi. Hawking – astrofisico quanto voglia -, consapevolmente o meno, rema contro. Riconsegna sé e colleghi armi e bagagli al Santo Uffizio. Palumbo – vada a suo merito - si rende conto che basta poco – basta una sgambettante velina televisiva, basta l’attuale corsa all’oro della chirurgia estetica, bastano pochi ma ben visibili atti di subordinazione ideologica – per far tornare alla casella di partenza nel gioco dell’oca della vita sociale. Perché è un attimo, e ciò che sembrava fosse finalmente sfuggito di mano, dopo secoli di divincolamenti spaventosamente faticosi, torna nella stretta di chi se lo teneva saldamente in pugno.<br /><br />Note<br />L’articolo di Piero Benvenuti, Creazione-Evoluzione Il conflitto che non c’è, è pubblicato nel “Corriere della Sera” del 8 novembre 2008. Le figlie di Lilith di Valeria Palumbo è pubblicato da Odradek, a Roma nel 2008.Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-62665385686833191462008-11-01T09:35:00.000-07:002008-11-01T09:45:03.127-07:00Ve lo ricordate il compagno Jervis?<span style="font-family: verdana; font-style: italic;">da "A", n. 339.</span><br /><span style="font-family: verdana; font-weight: bold;">Il maoista platonico e l’etologo</span><br /><br /><span style="font-family: verdana;">Premessa</span><br /><span style="font-family: verdana;">L’Istituzione negata, edita nel 1968 da Einaudi, ha spalancato “le porte su un’istituzione, una scienza e una società che mostrano il loro volto denudato nelle sue vergogne più nascoste: la violenza gratuita e disumana nei confronti dei più derelitti, violenza che rendeva disumani violentati e violentatori”. “Tutto ha inizio con un ‘no’”.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Lo dice Franca Basaglia ricordando un libro, pratiche e riflessioni teoriche che hanno, poi – nel giro di una decina di anni – condotto alla “legge 180”, detta anche, dal cognome di suo marito Franco, “legge Basaglia”, una “legge quadro” che avrebbe dovuto far superare la soluzione del manicomio come unica soluzione del “disagio” (o “malattia”, qui la scelta del termine è ardua) psichico – legge presto abbandonata a se stessa perché mai fu connessa ad un piano sanitario realmente propositivo.</span><br /><span style="font-family: verdana;">1.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Alla conclusione di un ampio e approfondito dibattito attuale sulla questione – ne La razionalità negata (Bollati Boringhieri, Torino 2008) –, Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis osservano rispettivamente che “la peggiore eredità del movimento antipsichiatrico” (venivano chiamate così e si preferisce chiamarle ancora così le pratiche e le riflessioni teoriche in questione) “è la critica ideologica al valore della professionalità e della competenza nell’ambito della medicina e della sanità pubblica” (169) e che “non c’è alcun motivo di rimpiangere il passato; ma, forse, si poteva fare meglio” (170).</span><br /><span style="font-family: verdana;">Già messe così le cose, diciamo che, come minimo, queste affermazioni ci pongono problemi: la differenza tra il “violentatore disumano” e la “professionalità” di valore o la “competenza” è tale da far venire i brividi, non è chiarissimo cosa si intenda per “critica ideologica” e, infine, è forse tutto da verificare che proprio nessun rimpianto per il passato alberghi nell’animo di chi parla.</span><br /><span style="font-family: verdana;">2.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Chi parla o, meglio, chi si parla sono uno storico della medicina nato nel 1958 ed uno psichiatra nato nel 1933. Il primo guarda alle vicende con il cuore leggero dello spettatore, di chi si è documentato, con l’occhio da etologo (lo dice lui e qualcuno, a seconda delle definizioni che si voglia dare dell’etologia, potrebbe anche offendersi); il secondo con i patemi del protagonista che si ritrova a doversela raccontare ricategorizzandosi in modo da uscirne più pulito possibile.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Per il primo – come se il suo brodo di cultura fossero i giornali e i dibattiti televisivi - il termine “ideologia” sembra connotare ogni nefandezza. Ne faccio qualche esempio:</span><br /><span style="font-family: verdana;">a) ci si renderebbe conto oggi “dei danni, delle sofferenze e dei ritardi che una serie di irragionevoli controversie ideologiche stanno causando da quasi mezzo secolo alla vita civile italiana” (pag. 19);</span><br /><span style="font-family: verdana;">b) sarebbe indotto a ritenere che “negli anni sessanta l’Italia abbia perso diverse opportunità per dotarsi di efficaci sistemi decisionali di selezione delle élite intellettuali”, a causa di “un quadro politico iperideologizzato” (pag. 35);</span><br /><span style="font-family: verdana;">c) sarebbe del tutto convinto che “le istanze di rinnovamento della psichiatria presero una piega fortemente connotata in senso politico-ideologico” (pag. 43).</span><br /><span style="font-family: verdana;">Per il secondo – che proprio del tutto dimentico del proprio percorso intellettuale non può esserlo e che, pertanto, non se la sente di accettare supinamente gli ordini impartiti dal regime in materia di significato delle parole -, dalle ideologie “non c’è nessuno che sia immune” (pag. 26). Sembrerebbero in contrasto irrimediabile, ma – potenza dell’oggi – vanno invece d’amore e d’accordo.</span><br /><span style="font-family: verdana;">3.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Jervis ci invita suadentemente alla rassegnazione. “Ammettiamolo, siamo tutti cambiati”, dice – dove quel “tutti” è una mossa retorica che, se da un lato, gli può portare il massimo dei conforti, dall’altro prevarica non poco nei confronti di chi si sente libero di applicare diversi criteri e, magari, impegnato (a differenza di lui) a dichiararli. Poi, prova a giustificarli questi “tutti” se stesso incluso.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Il mutamento sarebbe ineludibile perché “i problemi principali non sono più gli stessi”, “dopo il sessantotto sono balzate in primi piano questioni drammaticissime che non immaginavamo neppure”, e le snocciola una per una: inediti settarismi, violenza omicida dei gruppi armati, attentati con le bombe, minacce golpiste, decadenza del sistema educativo, corruzione, crescente divario fra il nostro senso civico e quello delle altre popolazioni occidentali, rivincita dell’integralismo cattolico (pag. 24).</span><br /><span style="font-family: verdana;">Sembrerebbe di averci a che fare con un’anima candida – che né ha mai letto un libro di storia (l’ottocento russo ?), che ha vissuto nel nostro Paese senza mai leggere i giornali (il caso Sifar ? L’immunità concessa all’estrema destra ed ai residuati del fascismo ?) e senza guardarsi troppo in giro (la Democrazia Cristiana, la sua cultura, il suo sistema di potere ? Il Vaticano ? Aveva forse creduto Jervis alla fine del potere temporale dei Papi ?). No, tutte queste questioni erano ben presenti ed evidenti – per chi voleva constatarle – ben prima del sessantotto. Non all’improvviso e non a caso, per l’appunto, si arriva al sessantotto.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Invece si ha a che fare con un filo-maoista a tempo (“tutti gli anni sessanta”), “una cosa”, tuttavia, “un po’ platonica e intellettualistica” (pag. 26) (viviamo tempi in cui l’ossimoro è norma sociale e, dunque, abbiamo anche il “maoista platonico”), per il quale “le prospettive sono cambiate”, “il marxismo è tramontato”, “perché ci siamo resi conto che (…) è necessario dare più importanza a tutto ciò che Marx, invece considerava secondario”. E, colui che un tempo citava L’ideologia tedesca ci spiega cosa sarebbe stato “secondario” per Marx: culture, moralità e immoralità dominanti, ideologie, credenze, stereotipi e costumi. Un Marx, insomma, in versione veltroberlusconiana – tra Calandrino e Pappagone.</span><br /><span style="font-family: verdana;">4.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Ma non solo. Giustificazioni ce n’è per tutti. A “parziale scusante per l’abuso”, occorre dire che “per lo più gli psichiatri non sapevano cosa fare. Spesso erano frustrati, talora esasperati, e allora era più facile che sbagliassero, nel tentativo di fare comunque qualcosa” (pag. 43). E, comunque, già per conto suo, ovvero senza bisogno di tanta critica, “la psichiatria stava cambiando”: “basta pensare all’avvento degli psicofarmaci nel corso degli anni cinquanta”, che mitigò le sofferenze dei malati (pag. 41), nonostante – ma si guardi un po’ – che “non si sapeva neppure molto bene perché fossero efficaci” (pag. 42). Jervis ricorda le “cure disperate” (che diedero il titolo ad un ottimo libro di E. S. Valenstein, edito da Giunti, Firenze 1993) e l’ “avvento” (una categorizzazione che, spesso, già implica il giubilo) di questo o quell’altro psicofarmaco, fra cui il litio, “che si rivelò risolutivo per il trattamento degli stati maniacali e delle psicosi bipolari” e che “rese molto più rara la necessità” dell’elettroshock.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Si dimentica di quando assembleava con Basaglia – quando questi diceva “non si deve fare l’elettroshock, non si devono dare le medicine” (cfr. L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968, pag. 267) e lui non trovava nulla da eccepire -, ma è pronto nel menzionare violenze e suicidi ascrivibili alla “chiusura dei manicomi” (mentre non si prova nemmeno a indagare su violenze e suicidi ascrivibili a dosaggi più e meno sbagliati di litio). L’elettroshock – si sarà notato – è comunque tornato “necessario”; il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo – che, sprezzantemente, non nomina neppure – era “furbo e superficiale”, Szasz, l’autore de Il mito della malattia mentale (pubblicato nel 1961, riedito da Spirali, Milano, nel 2003), che afferma come ”uno stato psichico denominato schizofrenia non è una malattia se non in senso metaforico” (pag. 76) – argomento sul quale si tace – sarebbe caratterizzato da un’ideologia antipsichiatrica “tradizionalista, ultra-individualista e di destra” (pagg. 75-76); mentre figure centrali del movimento antipsichiatrico - come Laing e Cooper -, d’altronde, morirono alcolizzati (pag. 64 e pag. 75). Insomma, in quanto a processi di svalorizzazione non si bada a spese.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Ciò non ostante, dopo il sessantotto si incontravano “persone di eccellente livello di istruzione” e “perfino qualche psicologo” che “dicevano con la massima serietà che i luoghi di degenza psichiatrica e la psichiatria stessa erano un prodotto del capitalismo” (pagg. 80-81). Uno di questi – verrebbe da dire -, per l’appunto, era lui.</span><br /><span style="font-family: verdana;">5.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Ricordo, allora, alcuni concetti espressi da Jervis ne L’istituzione negata.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Innanzitutto, “è legittimo esprimere il sospetto che la psichiatria” – con tutta la sua “pretesa scientificità” – “non riesca a definire in modo chiaro le particolarità che rendono di sua competenza un comportamento deviante” (pag. 304), tenendo presente che “il concetto stesso di malattia in generale non era per nulla facile da definire, e l’assimilazione dei disturbi mentali alle malattie organiche finiva comunque per avvenire su di un piano empirico e approssimativo” (pag. 305).</span><br /><span style="font-family: verdana;">Nella scienza moderna, “i fatti non parlano più da soli, l’osservatore è presente nella ricerca e non è fuori di essa, con i propri interventi pratici, le proprie categorie interpretative, la propria ideologia”, (pag. 307). Pertanto “non è più possibile sostenere (…) il carattere ‘naturale’ della malattia”, tanto è vero che “nella maggior parte dei casi (…) l’ipotesi di una lesione cerebrale appare infondata, artificiosa e irrilevante, perché il disturbo interpersonale acquista un senso solo nell’ambito di quella dinamica sociale che progressivamente gli ha dato forma” (pag. 308).</span><br /><span style="font-family: verdana;">“La differenza principale fra lo psichiatra e il malato che gli sta di fronte”, dunque, “non risiede nello squilibrio fra salute e malattia, ma in uno squilibrio di potere” (pag. 309). Il medico, infatti, “rimane (…) tenacemente ancorato a questa sua collocazione sociale, al modo di pensare della sua classe, alle presunzioni della sua formazione scientifica, all’ideologia del produttivismo, della proprietà (compresa la proprietà intellettuale), della sopraffazione individuale” (pag. 316).</span><br /><span style="font-family: verdana;">6.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Nel bilancio del duo Corbellini-Jervis – così retoricamente avveduti, così a modino nel non contraddirsi, così funzionali ad un quadro ideologico in cui repressione, medicalizzazione e revisione storiografica si implicano reciprocamente – non c’è più traccia di denuncia della “violenza dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. A psichiatria e scienza tutta viene riconsegnata la loro neutralità – non dico “perduta” ma almeno “messa in dubbio” – e gli inconvenienti loro capitati vengono classificati alla voce “irrazionalismo”. La razionalità negata – una “razionalità” che, ovviamente, ci si guarda bene dal definire – è dunque l’atto di controdenuncia con cui si ripristina un potere.</span><br /><span style="font-family: verdana;">7.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Senza badare a spese, dicevo. Alla conclusione del suo saggio ne L’istituzione negata, Jervis diceva che “il velleitarismo della antipsichiatria si propone di indicare (…) alcune delle vie possibili per una società totalmente diversa” (pag. 319), dove il carattere diverso designava chiaramente la presa di distanza dell’autore dalla parola. Come si trattasse di una citazione, di parola colta nella bocca altrui. Orbene, nella discussione attuale c’è perfino un momento (pag. 87) in cui Corbellini, in cerca di conferme e pronto a servirne su un piatto d’argento, ricorda a Jervis di aver parlato di “velleitarismo dell’antipsichiatria”, ma prendendo la parola per buona, come fosse una lungimirante dichiarazione di Jervis medesimo. E lui, ci sta.</span><br /><br /><span style="font-family: verdana;">Post scriptum</span><br /><span style="font-family: verdana;">Di quell’osservatore sempre “presente” nella ricerca scientifica, Jervis dovrebbe ricordarsi anche quando parla del suo panorama serale. Ci racconta, infatti, di un “tramonto del marxismo” spacciandolo per datità storica universale, non solo ignorandone – o fingendo di ignorarne – l’attualità nella ricerca storica e nella criteriologia dell’analisi economica, ma anche travisandone l’impianto metodologico. Potremmo ascrivere a Marx una tesi secondo la quale, nella ricostruzione degli eventi politici vanno privilegiati gli eventi categorizzati come “economici”, ovvero derivati dal conflitto fra chi detiene i mezzi di produzione e chi no, ma senza dimenticarci affatto di tutti quegli elementi culturali (credenze, morale, stereotipi, costumi, religione, etc.) che, connotandola negativamente in quanto “falsa coscienza”, riassume nell’”ideologia”. Che quest’ultima venga imposta dalla classe dominante per mantenere il proprio potere sui dominati è consapevolezza di cui a costi di buonsenso eccessivi (anche per la pur capace borsa di Corbellini e Jervis) Marx può essere espropriato. Anche la storiografia successiva a quella marxista – la scuola delle “Annales”, per esempio, un Le Goff o un Duby – ha contribuito a far emergere dal gran magma di sfondo gli elementi “ideologici”, ma affiancandoli a quelli “economici”, senza contrapporli affatto gli uni agli altri.</span><br /><span style="font-family: verdana;">Sull’uso del termine “ideologia” e sui molteplici significati che questo termine ha acquisito nei vari contesti, Rossi-Landi – nel 1978 (ma è disponibile una riedizione di Meltemi, Roma 2005) – scrisse un bel volume riccamente documentato. Corbellini potrebbe dargli un’occhiata: vedrebbe incrociarsi valorizzazioni positive (come nel caso della cultura sovietica post-rivoluzionaria), valorizzazioni negative (come quella marxiana) e investimenti più cauti – come quelli che affidano al termine la designazione di “quadro dei valori” o di “progettazione sociale”. Potrebbe così rendersi conto che, nel contesto testé ordito – in carenza di criteri espliciti -, la sua “ideologia” designa semplicemente, banalmente e vagamente “tutto ciò che è di sinistra”.</span><br /><br /><span style="font-family: verdana;">Post post scriptum</span><br /><span style="font-family: verdana;">Le affermazioni di Franca Basaglia sono tratte dalla riedizione di F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Baldini e Castaldi, Milano 1998, pag. 3.</span><br /><br /><span style="font-family: verdana;">Felice Accame</span>Odradek edizionihttp://www.blogger.com/profile/01665232458733337953noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-3413520827762048954.post-81763003648699127072008-11-01T09:18:00.000-07:002008-11-01T09:20:30.383-07:000.33 - Il coefficiente Pizzangrilli<span style="font-family:Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif;font-size:85%;">Lo sbarco dei Mille a Marsala, l'11 maggio 1860, ebbe numerosi testimoni, tra i quali: due lord inglesi, un visconte francese e un delegato della questura di Roma, tale Oreste Pizzangrilli. Il Pizzangrilli fece pervenire il suo rapporto a piazza della Cancelleria, sede avita della questura di Roma, fissando in 359,37 i garibaldini sbarcati, individuando così quel <span style="color:#0000ff;">coefficiente 0,33</span> a cui la questura di Roma per lungo tempo si è attenuta al fine di aggiustare come conviene le grandezze della politica.<br /> Infatti, <span style="color:#0000ff;">dividendo</span> 359,37 per il coefficiente 0,33 si avrà la effettiva cifra dei garibaldini sbarcati: <span style="color:#ff0000;">1.089</span>.<br /> Ma la questura di Roma, servile certamente allora, ha sempre usato poi quel coefficiente per ottenere, questa volta <span style="color:#0000ff;">moltiplicando</span>, una cifra opportunamente gradita al potere in carica. Se il capo, calvo o trapiantato che sia, convoca un'adunata di nemmeno centomila persone, con un generoso <span style="color:#ff0000;">coefficiente Pizzangrilli</span>, la massa arriva facilmente a mezzo milione. È successo.</span> <p><span style="font-family:Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif;font-size:85%;"><br /> Fin qui la storia. Il resto è cronaca. Da qualche tempo infatti, alla questura di Roma, il coefficiente viene usato con maggiore elasticità: fino a 0,10 e oltre. E comunque con una discrezionalità che certo non aiuta, non solo il lavoro degli storici, ma anche quello degli operatori dell'informazione.<br /> In altri tempi, se il capo dell'opposizione "sparava" <span style="color:#0000ff;">2 milioni e mezzo</span>, applicando il coefficiente Pizzangrilli, era agevole stabilire una cifra non lontana dalla realtà: 800.000, o giù di lì. E se a una manifestazione sindacale si fosse gridato: siamo <span style="color:#0000ff;">un milione</span>! Senza bisogno di foto da satellite, il pubblico avrebbe mentalmente valutato: sono quasi quattrocentomila.</span></p> <p><span style="font-family:Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif;font-size:85%;"><br /> Da un po' di tempo a questa parte, per lo meno da quando si deve dar conto a un jazzista docile e depresso, la terzietà dello Stato – anche a meno del coefficiente 0,33 – è diventata imperscrutabile. Un problema, per gli storici. Ma ci saranno ancora, gli storici?</span></p> <p><span style="font-family:Verdana, Arial, Helvetica, sans-serif;font-size:85%;"><br /> <span style="color:#0000ff;"><strong>Americo Giuliani</strong><span style="color:#000000;">,</span><strong> </strong><span style="color:#000000;">30 ottobre 2008</span></span></span></p>brambillahttp://www.blogger.com/profile/10912589764725973512noreply@blogger.com4