domenica 16 novembre 2008

Felice Accame
Radio Popolare, 16 novembre 2008


L’astrofisico e la velina sulla via dell’emancipazione

Difficile, a volte, è capire se certe forme di cultura umana vadano in una direzione o in un’altra. Se la Chiesa Cattolica, per esempio, stia andando verso l’accettazione dei risultati della scienza o non, piuttosto, in una direzione opposta, ovvero alla conferma dei propri dogmi su basi più solide di quanto, per l’appunto, il lavorio della scienza possa averle rese. O se la donna, faccio un altro esempio che con le prese di posizione della Chiesa ha parecchio a che fare , stia andando verso l’emancipazione.

Nel relazionare sul convegno organizzato dall’Accademia Pontificia sull’”Evoluzione dell’universo e della vita”, l’astrofisico Piero Benvenuti filosofeggia alla Sperindio. Dice che rispetto ai tempi di Galilei “spazio” e “tempo” non possono essere più considerati come “entità assolute”, ma “parte integrante della realtà fenomenica”. Mentre, in realtà, ai tempi di Galilei come peraltro ai tempi nostri ed ai tempi precedenti il problema è sempre quello di darne una definizione convincente una volta che, invece che categorie mentali, queste vengano considerate come qualcosa di fisico. Dice che il famoso Big Bang da cui avrebbe avuto origine il nostro universo non avverrebbe “all’interno dello spazio e in un determinato istante”, ma avverrebbe “assieme” allo spazio e al tempo e che a questa profonda verità – che lo sa Dio che significa: questa contemporaneità di evento e categorie per descriverlo ipostatizzate puzza tanto di creazionismo di contrabbando – si sarebbe giunti “su basi scientifiche” grazie alla teoria della relatività di Einstein. A Benvenuti questo discorrere fintamente saputello e oscuramente metaforico serve per evitare che, in quello che per lui è il dibattito fra scienza e fede – dibattito il cui senso a me è sempre sfuggito: o uno fa della scienza o uno fa un atto di fede, sono due attività ben diverse in dipendenza di atteggiamenti ben diversi -, si cerchi di interpretare la creazione divina come “inserita nel tempo”, ovvero come un fenomeno qualsiasi raccontato da qualcuno. Così, però, Benvenuti rischia di buttare nel cesso anche la Bibbia e, allora, lesto lesto corre ai ripari. Se si cadesse nell’errore di inserire la creazione divina nel tempo, dice, “sarebbe come leggere il racconto della Genesi e il Prologo di Giovanni in una subdola forma letterale, trascurando il vero scopo per il quale sono stati scritti”.
Ora, lasciando da parte il puerile appello al “vero“ scopo per cui una o l’altra parte della Bibbia è stata scritta – lo sa lui ? E Come fa a saperlo ? Chi glielo dice che il libro di Isaia o il Deuteronomio non fossero uno sproloquio poetico di un movimento surrealista del tempo che fu ? -, quello che più mi preoccupa è il dare per scontato che la forma letterale di un testo sia subdola di principio. Io, per esempio, ho letto il suo articolo e l’ho letto innanzitutto nella sua forma letterale, anche perché sfido chiunque a fare diversamente e sfido il suo autore a dirmi che avrei dovuto leggerlo in tutt’altra chiave. Ritengo dovere di chiunque, di fronte ad un testo qualsiasi – Bibbia inclusa – leggere a partire dalla forma letterale del testo tenendo ben presente, tuttavia, che questo cosiddetto letterale non è così semplice da definirsi. In poche parole: prima leggo il testo, poi mi pongo il problema se le parole che lo compongono non designino anche qualcos’altro oltre a quello che ho capito. Nessuna persona sensata – tornando a casa e trovando sulla porta un cartello con scritto “Fuga di gas: non suonare il campanello” - può permettersi di ignorare il significato letterale di un’espressione per passare subito a congetturare sui possibili significati nascosti, mettendo serenamente il dito sul campanello, premendo, e facendo saltare in aria l’intero caseggiato.

Dal Talmud, dal Libro dello splendore, volendo anche da un passo di Isaia (34, 14) e da altre fonti, ci si può fare un’idea di Lilith – del tipo “chi la conosce la evita, ma tant’è”. Prima moglie di Adamo – che come un intellettuale qualsiasi, allora, avrebbe dato dentro la vecchia per prendersene una nuova, Eva, anche perché questa Lilith ad un dato momento si è messa in testa di non volergli più “star sotto” -, demone infernale, lussuriosa, notturna, pelosa e zoccoluta, Lilith incarnerebbe la femmina che “sfinisce sessualmente il maschio” senza, tuttavia, restarne incinta. Nella seconda metà dell’Ottocento, questa Lilith – o, meglio, una sua versione “light”- ricompare nell’immaginario occidentale: Dante Gabriele Rossetti le dedica il ritratto di una sua amante ex prostituta e una poesia, Remy De Goncourt le intitola una commedia e un altro pittore, l’americano Kenyion Cox, le dedica un suo quadro.
La Lilith light, ovviamente né troppo pelosa né zoccoluta, si accontenta di sedurre i maschi e di ridurli in suo potere, possibilmente conducendoli alla rovina e auspicabilmente al suicidio.

Dopo essersi occupata di perfide e vittime più e meno bellicose a vario titolo, Valeria Palumbo intitola alle Figlie di Lilith un libro dedicato alle “emancipate non emancipazioniste”, ovvero alle “ribelli per istinto o necessità”, siano esse grandi cortigiane, attrici, ballerine, scrittrici di romanzi erotico-sentimentali, seduttrici, pittrici, modelle, ereditiere o “sartine intraprendenti” che “rivoluzionando la loro, hanno cambiato la nostra vita”. Incrocia, quindi, tratti biografici ben selezionati di una serie di fanciulle: da Valentine de Saint Point, l’autrice del Manifesto della donna futurista, a Maria Volpi, meglio nota con quel suo pseudonimo di scrittrice, Mura, che già in quanto tale, ricordando una contessa russa che si lasciava alle spalle una scia di sangue, era già motivo di scandalo; dalla pittrice Tamara de Lempicka alla Bella Otero, dalle attrici Francesca Bertini a Eleonora Duse, transitando affettuosamente nei dintorni dei travagliosi talami di molte altre profanatrici di tabù.
Palumbo rinuncia sagacemente a trovare un “inizio” a queste sue storie e neppure una linearità – un compito senza speranza. Ma, come tutti noi, può dirsi certa che “a cavallo di Ottocento e Novecento, in Europa e negli Stati Uniti, qualcosa cambiò” e cambiò – come il mito della femme fatale che, da letterario, si trasformò in modello di comportamento per chi, in virtù del pelo sullo stomaco o del censo, poteva permetterselo – tramite il cinema, che alle grandi masse aprì gli orizzonti sulla perversità di una Lulù di Wedekind o sulla vampireschità di una Theda Bara.

Secondo Stephen Hawking, intervenuto al convegno dell’Accademia Pontificia, entro breve tempo la scienza risponderà a domande come “Perché siamo qui ?” e “Da dove veniamo ?”. Involontariamente o meno, l’astrofisico inglese, inserendo la finalità e ipostatizzando una sorta di origine primigenia nella domanda, contraddice la procedura scientifica e quindi dà una mano al Papa. . E’ il caso, pertanto, della scienza che, rinuncia alle proprie prerogative per tornare verso la religione. Non è impossessandosi delle domande del credente che lo scienziato diventi migliore scienziato. Suo compito sarebbe, se mai, mostrare come queste domande non abbiano senso e che, dunque, è sbagliato porsele.

Le direzioni, o quel che a noi ogni tanto piace vedere come tali, cambiano: c’è di mezzo la volontà del soggetto – sia esso singolo o collettivo -, c’è di mezzo la volontà altrui e quell’insieme di troppo ricche interrelazioni che, per cavarcela alla svelta non senza autoingannarci, chiamiamo caso. Quel poco di storia che abbiamo sotto il naso ci insegna come sia difficile fare previsioni in ordine ai movimenti culturali: vanno a sinistra, ne siamo sicuri, e ce li ritroviamo a destra; vanno avanti e, invece, all’improvviso sono tornati indietro. Dipende sempre dai criteri che si applicano per dire che una cosa è di qua, di là, avanti o indietro.
“Emancipare” è parola che deriva dal latino: il “mancipium” era l’atto di acquisto di una proprietà, il “prendere in mano”. “Scienza” e “donne” sono fra i tanti soggetti storici che tentano di sfuggire ai loro storici proprietari, Chiesa e maschi. Hawking – astrofisico quanto voglia -, consapevolmente o meno, rema contro. Riconsegna sé e colleghi armi e bagagli al Santo Uffizio. Palumbo – vada a suo merito - si rende conto che basta poco – basta una sgambettante velina televisiva, basta l’attuale corsa all’oro della chirurgia estetica, bastano pochi ma ben visibili atti di subordinazione ideologica – per far tornare alla casella di partenza nel gioco dell’oca della vita sociale. Perché è un attimo, e ciò che sembrava fosse finalmente sfuggito di mano, dopo secoli di divincolamenti spaventosamente faticosi, torna nella stretta di chi se lo teneva saldamente in pugno.

Note
L’articolo di Piero Benvenuti, Creazione-Evoluzione Il conflitto che non c’è, è pubblicato nel “Corriere della Sera” del 8 novembre 2008. Le figlie di Lilith di Valeria Palumbo è pubblicato da Odradek, a Roma nel 2008.

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