domenica 16 novembre 2008

Felice Accame
Radio Popolare, 16 novembre 2008


L’astrofisico e la velina sulla via dell’emancipazione

Difficile, a volte, è capire se certe forme di cultura umana vadano in una direzione o in un’altra. Se la Chiesa Cattolica, per esempio, stia andando verso l’accettazione dei risultati della scienza o non, piuttosto, in una direzione opposta, ovvero alla conferma dei propri dogmi su basi più solide di quanto, per l’appunto, il lavorio della scienza possa averle rese. O se la donna, faccio un altro esempio che con le prese di posizione della Chiesa ha parecchio a che fare , stia andando verso l’emancipazione.

Nel relazionare sul convegno organizzato dall’Accademia Pontificia sull’”Evoluzione dell’universo e della vita”, l’astrofisico Piero Benvenuti filosofeggia alla Sperindio. Dice che rispetto ai tempi di Galilei “spazio” e “tempo” non possono essere più considerati come “entità assolute”, ma “parte integrante della realtà fenomenica”. Mentre, in realtà, ai tempi di Galilei come peraltro ai tempi nostri ed ai tempi precedenti il problema è sempre quello di darne una definizione convincente una volta che, invece che categorie mentali, queste vengano considerate come qualcosa di fisico. Dice che il famoso Big Bang da cui avrebbe avuto origine il nostro universo non avverrebbe “all’interno dello spazio e in un determinato istante”, ma avverrebbe “assieme” allo spazio e al tempo e che a questa profonda verità – che lo sa Dio che significa: questa contemporaneità di evento e categorie per descriverlo ipostatizzate puzza tanto di creazionismo di contrabbando – si sarebbe giunti “su basi scientifiche” grazie alla teoria della relatività di Einstein. A Benvenuti questo discorrere fintamente saputello e oscuramente metaforico serve per evitare che, in quello che per lui è il dibattito fra scienza e fede – dibattito il cui senso a me è sempre sfuggito: o uno fa della scienza o uno fa un atto di fede, sono due attività ben diverse in dipendenza di atteggiamenti ben diversi -, si cerchi di interpretare la creazione divina come “inserita nel tempo”, ovvero come un fenomeno qualsiasi raccontato da qualcuno. Così, però, Benvenuti rischia di buttare nel cesso anche la Bibbia e, allora, lesto lesto corre ai ripari. Se si cadesse nell’errore di inserire la creazione divina nel tempo, dice, “sarebbe come leggere il racconto della Genesi e il Prologo di Giovanni in una subdola forma letterale, trascurando il vero scopo per il quale sono stati scritti”.
Ora, lasciando da parte il puerile appello al “vero“ scopo per cui una o l’altra parte della Bibbia è stata scritta – lo sa lui ? E Come fa a saperlo ? Chi glielo dice che il libro di Isaia o il Deuteronomio non fossero uno sproloquio poetico di un movimento surrealista del tempo che fu ? -, quello che più mi preoccupa è il dare per scontato che la forma letterale di un testo sia subdola di principio. Io, per esempio, ho letto il suo articolo e l’ho letto innanzitutto nella sua forma letterale, anche perché sfido chiunque a fare diversamente e sfido il suo autore a dirmi che avrei dovuto leggerlo in tutt’altra chiave. Ritengo dovere di chiunque, di fronte ad un testo qualsiasi – Bibbia inclusa – leggere a partire dalla forma letterale del testo tenendo ben presente, tuttavia, che questo cosiddetto letterale non è così semplice da definirsi. In poche parole: prima leggo il testo, poi mi pongo il problema se le parole che lo compongono non designino anche qualcos’altro oltre a quello che ho capito. Nessuna persona sensata – tornando a casa e trovando sulla porta un cartello con scritto “Fuga di gas: non suonare il campanello” - può permettersi di ignorare il significato letterale di un’espressione per passare subito a congetturare sui possibili significati nascosti, mettendo serenamente il dito sul campanello, premendo, e facendo saltare in aria l’intero caseggiato.

Dal Talmud, dal Libro dello splendore, volendo anche da un passo di Isaia (34, 14) e da altre fonti, ci si può fare un’idea di Lilith – del tipo “chi la conosce la evita, ma tant’è”. Prima moglie di Adamo – che come un intellettuale qualsiasi, allora, avrebbe dato dentro la vecchia per prendersene una nuova, Eva, anche perché questa Lilith ad un dato momento si è messa in testa di non volergli più “star sotto” -, demone infernale, lussuriosa, notturna, pelosa e zoccoluta, Lilith incarnerebbe la femmina che “sfinisce sessualmente il maschio” senza, tuttavia, restarne incinta. Nella seconda metà dell’Ottocento, questa Lilith – o, meglio, una sua versione “light”- ricompare nell’immaginario occidentale: Dante Gabriele Rossetti le dedica il ritratto di una sua amante ex prostituta e una poesia, Remy De Goncourt le intitola una commedia e un altro pittore, l’americano Kenyion Cox, le dedica un suo quadro.
La Lilith light, ovviamente né troppo pelosa né zoccoluta, si accontenta di sedurre i maschi e di ridurli in suo potere, possibilmente conducendoli alla rovina e auspicabilmente al suicidio.

Dopo essersi occupata di perfide e vittime più e meno bellicose a vario titolo, Valeria Palumbo intitola alle Figlie di Lilith un libro dedicato alle “emancipate non emancipazioniste”, ovvero alle “ribelli per istinto o necessità”, siano esse grandi cortigiane, attrici, ballerine, scrittrici di romanzi erotico-sentimentali, seduttrici, pittrici, modelle, ereditiere o “sartine intraprendenti” che “rivoluzionando la loro, hanno cambiato la nostra vita”. Incrocia, quindi, tratti biografici ben selezionati di una serie di fanciulle: da Valentine de Saint Point, l’autrice del Manifesto della donna futurista, a Maria Volpi, meglio nota con quel suo pseudonimo di scrittrice, Mura, che già in quanto tale, ricordando una contessa russa che si lasciava alle spalle una scia di sangue, era già motivo di scandalo; dalla pittrice Tamara de Lempicka alla Bella Otero, dalle attrici Francesca Bertini a Eleonora Duse, transitando affettuosamente nei dintorni dei travagliosi talami di molte altre profanatrici di tabù.
Palumbo rinuncia sagacemente a trovare un “inizio” a queste sue storie e neppure una linearità – un compito senza speranza. Ma, come tutti noi, può dirsi certa che “a cavallo di Ottocento e Novecento, in Europa e negli Stati Uniti, qualcosa cambiò” e cambiò – come il mito della femme fatale che, da letterario, si trasformò in modello di comportamento per chi, in virtù del pelo sullo stomaco o del censo, poteva permetterselo – tramite il cinema, che alle grandi masse aprì gli orizzonti sulla perversità di una Lulù di Wedekind o sulla vampireschità di una Theda Bara.

Secondo Stephen Hawking, intervenuto al convegno dell’Accademia Pontificia, entro breve tempo la scienza risponderà a domande come “Perché siamo qui ?” e “Da dove veniamo ?”. Involontariamente o meno, l’astrofisico inglese, inserendo la finalità e ipostatizzando una sorta di origine primigenia nella domanda, contraddice la procedura scientifica e quindi dà una mano al Papa. . E’ il caso, pertanto, della scienza che, rinuncia alle proprie prerogative per tornare verso la religione. Non è impossessandosi delle domande del credente che lo scienziato diventi migliore scienziato. Suo compito sarebbe, se mai, mostrare come queste domande non abbiano senso e che, dunque, è sbagliato porsele.

Le direzioni, o quel che a noi ogni tanto piace vedere come tali, cambiano: c’è di mezzo la volontà del soggetto – sia esso singolo o collettivo -, c’è di mezzo la volontà altrui e quell’insieme di troppo ricche interrelazioni che, per cavarcela alla svelta non senza autoingannarci, chiamiamo caso. Quel poco di storia che abbiamo sotto il naso ci insegna come sia difficile fare previsioni in ordine ai movimenti culturali: vanno a sinistra, ne siamo sicuri, e ce li ritroviamo a destra; vanno avanti e, invece, all’improvviso sono tornati indietro. Dipende sempre dai criteri che si applicano per dire che una cosa è di qua, di là, avanti o indietro.
“Emancipare” è parola che deriva dal latino: il “mancipium” era l’atto di acquisto di una proprietà, il “prendere in mano”. “Scienza” e “donne” sono fra i tanti soggetti storici che tentano di sfuggire ai loro storici proprietari, Chiesa e maschi. Hawking – astrofisico quanto voglia -, consapevolmente o meno, rema contro. Riconsegna sé e colleghi armi e bagagli al Santo Uffizio. Palumbo – vada a suo merito - si rende conto che basta poco – basta una sgambettante velina televisiva, basta l’attuale corsa all’oro della chirurgia estetica, bastano pochi ma ben visibili atti di subordinazione ideologica – per far tornare alla casella di partenza nel gioco dell’oca della vita sociale. Perché è un attimo, e ciò che sembrava fosse finalmente sfuggito di mano, dopo secoli di divincolamenti spaventosamente faticosi, torna nella stretta di chi se lo teneva saldamente in pugno.

Note
L’articolo di Piero Benvenuti, Creazione-Evoluzione Il conflitto che non c’è, è pubblicato nel “Corriere della Sera” del 8 novembre 2008. Le figlie di Lilith di Valeria Palumbo è pubblicato da Odradek, a Roma nel 2008.

sabato 1 novembre 2008

Ve lo ricordate il compagno Jervis?

da "A", n. 339.
Il maoista platonico e l’etologo

Premessa
L’Istituzione negata, edita nel 1968 da Einaudi, ha spalancato “le porte su un’istituzione, una scienza e una società che mostrano il loro volto denudato nelle sue vergogne più nascoste: la violenza gratuita e disumana nei confronti dei più derelitti, violenza che rendeva disumani violentati e violentatori”. “Tutto ha inizio con un ‘no’”.
Lo dice Franca Basaglia ricordando un libro, pratiche e riflessioni teoriche che hanno, poi – nel giro di una decina di anni – condotto alla “legge 180”, detta anche, dal cognome di suo marito Franco, “legge Basaglia”, una “legge quadro” che avrebbe dovuto far superare la soluzione del manicomio come unica soluzione del “disagio” (o “malattia”, qui la scelta del termine è ardua) psichico – legge presto abbandonata a se stessa perché mai fu connessa ad un piano sanitario realmente propositivo.
1.
Alla conclusione di un ampio e approfondito dibattito attuale sulla questione – ne La razionalità negata (Bollati Boringhieri, Torino 2008) –, Gilberto Corbellini e Giovanni Jervis osservano rispettivamente che “la peggiore eredità del movimento antipsichiatrico” (venivano chiamate così e si preferisce chiamarle ancora così le pratiche e le riflessioni teoriche in questione) “è la critica ideologica al valore della professionalità e della competenza nell’ambito della medicina e della sanità pubblica” (169) e che “non c’è alcun motivo di rimpiangere il passato; ma, forse, si poteva fare meglio” (170).
Già messe così le cose, diciamo che, come minimo, queste affermazioni ci pongono problemi: la differenza tra il “violentatore disumano” e la “professionalità” di valore o la “competenza” è tale da far venire i brividi, non è chiarissimo cosa si intenda per “critica ideologica” e, infine, è forse tutto da verificare che proprio nessun rimpianto per il passato alberghi nell’animo di chi parla.
2.
Chi parla o, meglio, chi si parla sono uno storico della medicina nato nel 1958 ed uno psichiatra nato nel 1933. Il primo guarda alle vicende con il cuore leggero dello spettatore, di chi si è documentato, con l’occhio da etologo (lo dice lui e qualcuno, a seconda delle definizioni che si voglia dare dell’etologia, potrebbe anche offendersi); il secondo con i patemi del protagonista che si ritrova a doversela raccontare ricategorizzandosi in modo da uscirne più pulito possibile.
Per il primo – come se il suo brodo di cultura fossero i giornali e i dibattiti televisivi - il termine “ideologia” sembra connotare ogni nefandezza. Ne faccio qualche esempio:
a) ci si renderebbe conto oggi “dei danni, delle sofferenze e dei ritardi che una serie di irragionevoli controversie ideologiche stanno causando da quasi mezzo secolo alla vita civile italiana” (pag. 19);
b) sarebbe indotto a ritenere che “negli anni sessanta l’Italia abbia perso diverse opportunità per dotarsi di efficaci sistemi decisionali di selezione delle élite intellettuali”, a causa di “un quadro politico iperideologizzato” (pag. 35);
c) sarebbe del tutto convinto che “le istanze di rinnovamento della psichiatria presero una piega fortemente connotata in senso politico-ideologico” (pag. 43).
Per il secondo – che proprio del tutto dimentico del proprio percorso intellettuale non può esserlo e che, pertanto, non se la sente di accettare supinamente gli ordini impartiti dal regime in materia di significato delle parole -, dalle ideologie “non c’è nessuno che sia immune” (pag. 26). Sembrerebbero in contrasto irrimediabile, ma – potenza dell’oggi – vanno invece d’amore e d’accordo.
3.
Jervis ci invita suadentemente alla rassegnazione. “Ammettiamolo, siamo tutti cambiati”, dice – dove quel “tutti” è una mossa retorica che, se da un lato, gli può portare il massimo dei conforti, dall’altro prevarica non poco nei confronti di chi si sente libero di applicare diversi criteri e, magari, impegnato (a differenza di lui) a dichiararli. Poi, prova a giustificarli questi “tutti” se stesso incluso.
Il mutamento sarebbe ineludibile perché “i problemi principali non sono più gli stessi”, “dopo il sessantotto sono balzate in primi piano questioni drammaticissime che non immaginavamo neppure”, e le snocciola una per una: inediti settarismi, violenza omicida dei gruppi armati, attentati con le bombe, minacce golpiste, decadenza del sistema educativo, corruzione, crescente divario fra il nostro senso civico e quello delle altre popolazioni occidentali, rivincita dell’integralismo cattolico (pag. 24).
Sembrerebbe di averci a che fare con un’anima candida – che né ha mai letto un libro di storia (l’ottocento russo ?), che ha vissuto nel nostro Paese senza mai leggere i giornali (il caso Sifar ? L’immunità concessa all’estrema destra ed ai residuati del fascismo ?) e senza guardarsi troppo in giro (la Democrazia Cristiana, la sua cultura, il suo sistema di potere ? Il Vaticano ? Aveva forse creduto Jervis alla fine del potere temporale dei Papi ?). No, tutte queste questioni erano ben presenti ed evidenti – per chi voleva constatarle – ben prima del sessantotto. Non all’improvviso e non a caso, per l’appunto, si arriva al sessantotto.
Invece si ha a che fare con un filo-maoista a tempo (“tutti gli anni sessanta”), “una cosa”, tuttavia, “un po’ platonica e intellettualistica” (pag. 26) (viviamo tempi in cui l’ossimoro è norma sociale e, dunque, abbiamo anche il “maoista platonico”), per il quale “le prospettive sono cambiate”, “il marxismo è tramontato”, “perché ci siamo resi conto che (…) è necessario dare più importanza a tutto ciò che Marx, invece considerava secondario”. E, colui che un tempo citava L’ideologia tedesca ci spiega cosa sarebbe stato “secondario” per Marx: culture, moralità e immoralità dominanti, ideologie, credenze, stereotipi e costumi. Un Marx, insomma, in versione veltroberlusconiana – tra Calandrino e Pappagone.
4.
Ma non solo. Giustificazioni ce n’è per tutti. A “parziale scusante per l’abuso”, occorre dire che “per lo più gli psichiatri non sapevano cosa fare. Spesso erano frustrati, talora esasperati, e allora era più facile che sbagliassero, nel tentativo di fare comunque qualcosa” (pag. 43). E, comunque, già per conto suo, ovvero senza bisogno di tanta critica, “la psichiatria stava cambiando”: “basta pensare all’avvento degli psicofarmaci nel corso degli anni cinquanta”, che mitigò le sofferenze dei malati (pag. 41), nonostante – ma si guardi un po’ – che “non si sapeva neppure molto bene perché fossero efficaci” (pag. 42). Jervis ricorda le “cure disperate” (che diedero il titolo ad un ottimo libro di E. S. Valenstein, edito da Giunti, Firenze 1993) e l’ “avvento” (una categorizzazione che, spesso, già implica il giubilo) di questo o quell’altro psicofarmaco, fra cui il litio, “che si rivelò risolutivo per il trattamento degli stati maniacali e delle psicosi bipolari” e che “rese molto più rara la necessità” dell’elettroshock.
Si dimentica di quando assembleava con Basaglia – quando questi diceva “non si deve fare l’elettroshock, non si devono dare le medicine” (cfr. L’istituzione negata, Einaudi, Torino 1968, pag. 267) e lui non trovava nulla da eccepire -, ma è pronto nel menzionare violenze e suicidi ascrivibili alla “chiusura dei manicomi” (mentre non si prova nemmeno a indagare su violenze e suicidi ascrivibili a dosaggi più e meno sbagliati di litio). L’elettroshock – si sarà notato – è comunque tornato “necessario”; il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo – che, sprezzantemente, non nomina neppure – era “furbo e superficiale”, Szasz, l’autore de Il mito della malattia mentale (pubblicato nel 1961, riedito da Spirali, Milano, nel 2003), che afferma come ”uno stato psichico denominato schizofrenia non è una malattia se non in senso metaforico” (pag. 76) – argomento sul quale si tace – sarebbe caratterizzato da un’ideologia antipsichiatrica “tradizionalista, ultra-individualista e di destra” (pagg. 75-76); mentre figure centrali del movimento antipsichiatrico - come Laing e Cooper -, d’altronde, morirono alcolizzati (pag. 64 e pag. 75). Insomma, in quanto a processi di svalorizzazione non si bada a spese.
Ciò non ostante, dopo il sessantotto si incontravano “persone di eccellente livello di istruzione” e “perfino qualche psicologo” che “dicevano con la massima serietà che i luoghi di degenza psichiatrica e la psichiatria stessa erano un prodotto del capitalismo” (pagg. 80-81). Uno di questi – verrebbe da dire -, per l’appunto, era lui.
5.
Ricordo, allora, alcuni concetti espressi da Jervis ne L’istituzione negata.
Innanzitutto, “è legittimo esprimere il sospetto che la psichiatria” – con tutta la sua “pretesa scientificità” – “non riesca a definire in modo chiaro le particolarità che rendono di sua competenza un comportamento deviante” (pag. 304), tenendo presente che “il concetto stesso di malattia in generale non era per nulla facile da definire, e l’assimilazione dei disturbi mentali alle malattie organiche finiva comunque per avvenire su di un piano empirico e approssimativo” (pag. 305).
Nella scienza moderna, “i fatti non parlano più da soli, l’osservatore è presente nella ricerca e non è fuori di essa, con i propri interventi pratici, le proprie categorie interpretative, la propria ideologia”, (pag. 307). Pertanto “non è più possibile sostenere (…) il carattere ‘naturale’ della malattia”, tanto è vero che “nella maggior parte dei casi (…) l’ipotesi di una lesione cerebrale appare infondata, artificiosa e irrilevante, perché il disturbo interpersonale acquista un senso solo nell’ambito di quella dinamica sociale che progressivamente gli ha dato forma” (pag. 308).
“La differenza principale fra lo psichiatra e il malato che gli sta di fronte”, dunque, “non risiede nello squilibrio fra salute e malattia, ma in uno squilibrio di potere” (pag. 309). Il medico, infatti, “rimane (…) tenacemente ancorato a questa sua collocazione sociale, al modo di pensare della sua classe, alle presunzioni della sua formazione scientifica, all’ideologia del produttivismo, della proprietà (compresa la proprietà intellettuale), della sopraffazione individuale” (pag. 316).
6.
Nel bilancio del duo Corbellini-Jervis – così retoricamente avveduti, così a modino nel non contraddirsi, così funzionali ad un quadro ideologico in cui repressione, medicalizzazione e revisione storiografica si implicano reciprocamente – non c’è più traccia di denuncia della “violenza dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. A psichiatria e scienza tutta viene riconsegnata la loro neutralità – non dico “perduta” ma almeno “messa in dubbio” – e gli inconvenienti loro capitati vengono classificati alla voce “irrazionalismo”. La razionalità negata – una “razionalità” che, ovviamente, ci si guarda bene dal definire – è dunque l’atto di controdenuncia con cui si ripristina un potere.
7.
Senza badare a spese, dicevo. Alla conclusione del suo saggio ne L’istituzione negata, Jervis diceva che “il velleitarismo della antipsichiatria si propone di indicare (…) alcune delle vie possibili per una società totalmente diversa” (pag. 319), dove il carattere diverso designava chiaramente la presa di distanza dell’autore dalla parola. Come si trattasse di una citazione, di parola colta nella bocca altrui. Orbene, nella discussione attuale c’è perfino un momento (pag. 87) in cui Corbellini, in cerca di conferme e pronto a servirne su un piatto d’argento, ricorda a Jervis di aver parlato di “velleitarismo dell’antipsichiatria”, ma prendendo la parola per buona, come fosse una lungimirante dichiarazione di Jervis medesimo. E lui, ci sta.

Post scriptum
Di quell’osservatore sempre “presente” nella ricerca scientifica, Jervis dovrebbe ricordarsi anche quando parla del suo panorama serale. Ci racconta, infatti, di un “tramonto del marxismo” spacciandolo per datità storica universale, non solo ignorandone – o fingendo di ignorarne – l’attualità nella ricerca storica e nella criteriologia dell’analisi economica, ma anche travisandone l’impianto metodologico. Potremmo ascrivere a Marx una tesi secondo la quale, nella ricostruzione degli eventi politici vanno privilegiati gli eventi categorizzati come “economici”, ovvero derivati dal conflitto fra chi detiene i mezzi di produzione e chi no, ma senza dimenticarci affatto di tutti quegli elementi culturali (credenze, morale, stereotipi, costumi, religione, etc.) che, connotandola negativamente in quanto “falsa coscienza”, riassume nell’”ideologia”. Che quest’ultima venga imposta dalla classe dominante per mantenere il proprio potere sui dominati è consapevolezza di cui a costi di buonsenso eccessivi (anche per la pur capace borsa di Corbellini e Jervis) Marx può essere espropriato. Anche la storiografia successiva a quella marxista – la scuola delle “Annales”, per esempio, un Le Goff o un Duby – ha contribuito a far emergere dal gran magma di sfondo gli elementi “ideologici”, ma affiancandoli a quelli “economici”, senza contrapporli affatto gli uni agli altri.
Sull’uso del termine “ideologia” e sui molteplici significati che questo termine ha acquisito nei vari contesti, Rossi-Landi – nel 1978 (ma è disponibile una riedizione di Meltemi, Roma 2005) – scrisse un bel volume riccamente documentato. Corbellini potrebbe dargli un’occhiata: vedrebbe incrociarsi valorizzazioni positive (come nel caso della cultura sovietica post-rivoluzionaria), valorizzazioni negative (come quella marxiana) e investimenti più cauti – come quelli che affidano al termine la designazione di “quadro dei valori” o di “progettazione sociale”. Potrebbe così rendersi conto che, nel contesto testé ordito – in carenza di criteri espliciti -, la sua “ideologia” designa semplicemente, banalmente e vagamente “tutto ciò che è di sinistra”.

Post post scriptum
Le affermazioni di Franca Basaglia sono tratte dalla riedizione di F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Baldini e Castaldi, Milano 1998, pag. 3.

Felice Accame

0.33 - Il coefficiente Pizzangrilli

Lo sbarco dei Mille a Marsala, l'11 maggio 1860, ebbe numerosi testimoni, tra i quali: due lord inglesi, un visconte francese e un delegato della questura di Roma, tale Oreste Pizzangrilli. Il Pizzangrilli fece pervenire il suo rapporto a piazza della Cancelleria, sede avita della questura di Roma, fissando in 359,37 i garibaldini sbarcati, individuando così quel coefficiente 0,33 a cui la questura di Roma per lungo tempo si è attenuta al fine di aggiustare come conviene le grandezze della politica.
Infatti, dividendo 359,37 per il coefficiente 0,33 si avrà la effettiva cifra dei garibaldini sbarcati: 1.089.
Ma la questura di Roma, servile certamente allora, ha sempre usato poi quel coefficiente per ottenere, questa volta moltiplicando, una cifra opportunamente gradita al potere in carica. Se il capo, calvo o trapiantato che sia, convoca un'adunata di nemmeno centomila persone, con un generoso coefficiente Pizzangrilli, la massa arriva facilmente a mezzo milione. È successo.


Fin qui la storia. Il resto è cronaca. Da qualche tempo infatti, alla questura di Roma, il coefficiente viene usato con maggiore elasticità: fino a 0,10 e oltre. E comunque con una discrezionalità che certo non aiuta, non solo il lavoro degli storici, ma anche quello degli operatori dell'informazione.
In altri tempi, se il capo dell'opposizione "sparava" 2 milioni e mezzo, applicando il coefficiente Pizzangrilli, era agevole stabilire una cifra non lontana dalla realtà: 800.000, o giù di lì. E se a una manifestazione sindacale si fosse gridato: siamo un milione! Senza bisogno di foto da satellite, il pubblico avrebbe mentalmente valutato: sono quasi quattrocentomila.


Da un po' di tempo a questa parte, per lo meno da quando si deve dar conto a un jazzista docile e depresso, la terzietà dello Stato – anche a meno del coefficiente 0,33 – è diventata imperscrutabile. Un problema, per gli storici. Ma ci saranno ancora, gli storici?


Americo Giuliani, 30 ottobre 2008