giovedì 22 ottobre 2009

Un sorprendente esempio di revisionismo storico

Il 12 settembre, a Milano, si sono tenuti i funerali di stato per un improbabile partigiano, ignoto antifascista, senatore a vita mancato, ma straordinaria maschera che va ad arricchire la commedia dell'arte italica: il Domandiere, che ignora la risposta, qualsiasi sia la domanda che legge. Nell'occasione, proponiamo questa analisi di Felice Accame.

ps- Ci fa notare Antonio A. - riportando l'osservazione di Beccofino - che, a proposito di partigiani, antifascismo e mancati senatori a vita, invece, Vittorio Foa, i funerali di Stato non li ha avuti. Meglio così. Echissenefrega.


Un sorprendente esempio di revisionismo storico

di Felice Accame, sta in Antologia critica del sistema delle stelle, Roma Odradek, pp. 154-156.

«Idolatrato da milioni di persone, ... deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita ... ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto». Fossero state scritte, queste parole, nel 2004, e se dovessimo indovinare a chi si riferiscono, ci troveremmo in imbarazzo. [...] Ma questi giudizi sono stati formulati nel 1961, allorché era piuttosto facile individuare la persona cui si potevano adattare. Per l'appunto nel 2004, Aldo Grasso ci ha dato una strana lezione di ermeneutica. Ci ha spiegato – cosa che non saremmo mai riusciti a capire da noi – che "le cose cambiano in continuazione", che "cambiano gli spettatori, cambiano i presentatori, cambiano i punti di vista, cambiano i contesti, cambiano, col tempo, anche i testi analizzati". Il che sarebbe come dire che non devo fidarmi delle analisi dell'orina del lunedì mattina perché l'orina del mercoledì sarà diversa. Il che sarebbe come dire "di analisi non facciamone più". Il che rappresenta la punta ideologicamente più avanzata del pragmatismo berlusconiano. Questa strana e inconsulta lezione, Grasso ce la somministrava per festeggiare l'ottantesimo compleanno di quel "signore del buonsenso" che, a suo dire, è Mike Bongiorno. Il Mike Bongiorno di oggi, secondo il Vangelo di Grasso, "sfoggia cultura, quella cultura popolare che lo ha reso famoso e che gli ha permesso di svolgere un ruolo non indifferente nel lungo processo di costruzione dell'identità italiana". Da genio quale è, questo Bongiorno avrebbe sempre saputo scegliere il "punto di vista del 'semplice'" (con le virgolette parachiappe). Le sue "gaffe, bizze, goffaggini" sarebbero state parte di un suo acuto marchingegno d'intelligente ingegneria sociale e chi, nel passato, avesse avuto qualcosa da ridire nei suoi confronti sarebbe un "entomologo dell' ovvio". In ragione di ciò, Grasso chiede a gran voce che Umberto Eco, – che nel 1961, sulle pagine della rivista Il Verri, pubblica quella Fenomenologia di Mike Bongiorno che poi, insieme a qualche scherzo letterario e a saggi storicamente significativi come l'Elogio di Franti, raccoglierà nel fortunato Diario Minimo - Fenomenologia di Mike Bongiorno da cui ho tratto quel bozzetto iniziale –, ritiri quanto ha scritto e che, in pratica, ne firmi una riabilitazione.
La sera del l giugno del 2004, nei giardini del Quirinale, il Presidente della Repubblica Ciampi festeggia il cosiddetto "compleanno della Repubblica". Concerto e cocktail per duemila invitati che il giornale su cui scrive Aldo Grasso definisce "rigorosamente selezionati". La serata – che non soltanto fotograferebbe i "poteri in corso", ma che segnalerebbe altresì "chi sale e chi scende nella teleaffettività degli italiani" – costituirebbe un "trionfo" per Mike Bongiorno. Che piange di commozione per le belle parole che Ciampi (lettore attento di Grasso, evidentemente, e sulle stesse posizioni ermeneutiche) trova per lui. Non solo. Riferiscono le cronache che, più tardi, Mike Bongiorno trovi la forza di rivelare cosa gli ha detto Franca Ciampi. Gli ha detto: "Mi ha detto che sono più bello dal vivo". Mi è capitato più volte di sentirmi come un personaggio di quel vecchio film di Don Siegel, L'invasione degli ultracorpi, e di scoprire all'improvviso che anche il mio interlocutore è uno di loro. Qui è chiaro – è l'illuminante frase di Franca Ciampi a farcelo comprendere – che, in quei giardini del Quirinale, tutti siano dei loro. Ma quel che dice Franca Ciampi verrà pure da qualche parte. Voglio dire che, incontrare Mike Bongiorno e ritenere opportuno e sensato dirgli che "è più bello dal vivo", è una scelta che proviene da una matrice culturale fin troppo chiara. Quel pensiero sa, in altre parole, di Mike Bongiorno stesso, dall'inizio alla fine. Anzi, giurerei che è fin suo, suo ideologicamente e suo storicamente. Anni or sono, allorché ha cominciato a produrre i signori e le signore Ciampi, avrà pur detto a qualcuno: "ma sa che lei è più bello dal vivo". È il tipico campione della cultura bongiornica e, soprattutto, è il tipico segno delle scelte politiche che hanno condotto a questa cultura. Non ho mai apprezzato gran che La fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco. Per difetto di critica nei confronti del personaggio, non per eccesso. Come buona parte degli scritti di Eco, la ritengo più l'espressione giocosa di una borghesia intellettuale che il risultato di una critica radicale del sistema culturale e della sua filosofia. Chi indugia su categorie come quella della "mediocrità", o chi crede che la comunicazione televisiva possa essere analizzata e risolta in termini di rapporti gerarchici fra chi sta da una parte e chi dall' altra del video – non chiedendosi né le radici politiche di ciò che lui categorizza come mediocrità né perché qualcuno sta da una parte e qualcun altro sta dall'altra parte del video –, in fin dei conti, sta semplicemente ribadendo altre gerarchie costituitesi secondo il proprio punto di vista. Spero sinceramente che Eco non accolga l'invito di Aldo Grasso e lasci Mike Bongiorno in quel modestissimo inferno in cui l'aveva piazzato a suo tempo. O meglio, se Eco volesse dimostrare di esser cresciuto – e dal 1961 al 2004 ne avrebbe fin il dovere –, e di non far parte di questa miserevole servitù di regime, potrebbe riscrivere La fenomenologia di Mike Bongiorno e rincarare la dose. Con un'appendice dal titolo: "Mike Bongiorno come ontologia e come costruzione sociale: due linee a confronto". �

sabato 2 maggio 2009

Considerazioni sui prossimi referendum

di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova

Padova, 22 aprile 2009

Siamo arrivati al dunque. Il governo Berlusconi ha deciso che il “giorno delle elezioni” non ci sarà, è stata esclusa ogni possibilità di accorpamento tra le elezioni europee, le elezioni amministrative e i tre quesiti referendari che riguardano la attuale legge elettorale, il cosiddetto “porcellum”, il nostro sistema di voto che priva fra l’altro l’elettore della facoltà di esprimere preferenze proprie.
Il referendum si terrà probabilmente il 21 giugno, la data dei ballottaggi delle consultazioni locali. Molti personaggi politici dello schieramento dell’opposizione sottolineano, quasi esclusivamente e in modo particolare, un unico effetto; accusano le forze di maggioranza solo di sperperare almeno 170 milioni di euro, soldi che, dicono, sarebbero potuti andare in favore delle popolazioni colpite dal terremoto in Abruzzo. Ma trascurano di mettere in evidenza la natura reazionaria dei quesiti referendari, e però sventolano davanti al muso del corpo elettorale la banderilla rossa diversiva dell’indignazione per lo spreco a tutto sfavore degli sfortunati Abruzzesi.
Berlusconi, molto furbescamente aveva promesso, nelle ore immediatamente successive, di valutare l’eventualità di un’unica convocazione elettorale, per poi tirarsi indietro affermando che tutto era andato in fumo per evitare di compromettere la sopravvivenza dell’esecutivo. La Lega Nord era contraria all’accorpamento perché spera che i referendum non raggiungano il quorum. La spiegazione di questo, qualche passo più avanti.
In seno alla maggioranza ha prevalso la volontà di non aprire un fronte conflittuale con il Carroccio. La Lega ha fatto pressione per mantenere gli orientamenti iniziali e ha vinto la sua partita. Chiamare alle urne nello stesso giorno i cittadini avrebbe potuto fungere da traino per il raggiungimento del quorum.
A conferma di ciò le parole pronunciate tra le macerie d’Abruzzo dal presidente del Consiglio: sarebbe stato “da irresponsabili” far cadere il governo. “Avremmo avuto, a seguito di una situazione per noi favorevole, il risultato di far cadere la maggioranza di governo. Dunque anche qui abbiamo dovuto rinunciare a quello che per noi era un fatto positivo. Dispiace che certi la interpretino come debolezza del presidente del Consiglio e del PdL, quella di aver ceduto alla precisa richiesta di una parte della maggioranza che non avrebbe accettato e avrebbe fatto cadere il governo”.
Tanto, a Berlusconi e ai suoi sodali, che si voti prima, dopo, che i referendum ottengano il quorum o no, interessa minimamente: tutti i venti sono a suo favore. La legge attuale comunque lo favorisce, e se passassero i sì referendari per il PdL e Berlusconi andrebbe ancora meglio: potrebbe una volta per tutte sottrarsi al cappio che la Lega Nord gli fa ondeggiare davanti, quando Bossi vuole raggiungere risultati politici favorevoli agli interessi Leghisti.
Il segretario del Pd Dario Franceschini attacca: “Berlusconi si piega ancora al ricatto di Bossi”. Secondo Gianfranco Fini, nelle vesti istituzionali di Presidente della Camera dei Deputati: “Sarebbe un peccato e uno spreco se per la paura di pochi il governo rinunciasse a tenere il referendum il 7 giugno, spendendo centinaia di milioni che potrebbero essere risparmiati”.
Da notare che entrambi i personaggi politici non fanno alcun accenno al contenuto dei quesiti referendari, e se ne guardano bene!
È necessario, a questo punto, prendere in considerazione i tre quesiti, e trarne alcune conseguenze.
Il Primo (modulo colore verde) e il Secondo quesito (modulo bianco) riguardano il premio di maggioranza alla lista più votata e innalzamento della soglia di sbarramento (attualmente al 4%).
Il Primo ed il Secondo quesito (valevoli rispettivamente per la Camera dei Deputati e per il Senato) si propongono l’abrogazione del collegamento tra liste e della possibilità di attribuire il premio di maggioranza alle coalizioni di liste.
Con l'approvazione del Terzo quesito (modulo rosso) la facoltà di candidature multiple verrà abrogata, sia alla Camera che al Senato.
In caso di esito positivo del referendum, la conseguenza è che il premio di maggioranza viene attribuito alla lista singola (e non più alla coalizione di liste, che viene vietata!) che abbia ottenuto il maggior numero di seggi.
Immediatamente salta agli occhi che rimane nella futura legge elettorale ancora la sottrazione all’elettore della facoltà di esprimere preferenze, facoltà che resta strettamente di competenza delle segreterie e delle consorterie partitiche.
Il premio di maggioranza non va più ad una possibile coalizione, vista l’abrogazione del collegamento di liste, ma i 340 seggi, cioè il 53,9% del totale dei seggi della Camera dei Deputati e il 55% dei seggi al Senato vengono attribuiti alla lista che raggiungesse lo zero virgola uno per cento di voti in più di ciascuna delle altre, anche se tali voti dovessero corrispondere solo al 30, al 25% dei voti, o meno.
Data poi la soglia di sbarramento superiore al 4%, in Parlamento arriverebbero al massimo cinque formazioni, con la lista vincente che potrebbe governare indisturbata, senza alcun bisogno di alleati. Al momento attuale, e io prevedo per tanti anni, il pallino lo ho stretto nelle sue mani Berlusconi, e ciao Bossi!, e ciao Lega Nord!, che tanto i neofascisti di Alleanza Nazionale si sono già a tempo giusto incistati nel Partito delle Libertà.
L’attuale legge elettorale, la porcata di Calderoli, aveva inferto al sistema democratico una ferita profonda; se passano questi referendum, questo golpe referendario, la Costituzione formale rimane invariata ma i suoi contenuti vengono definitivamente svuotati, vengono messe in atto prassi che contorcono il significato dei suoi principi e demoliscono i suoi istituti.
Le forze politiche tutte, di destra e di centro, attraverso le campagne di “voti utili” e di “soglie di sbarramento”, hanno innescato un processo irreversibile per liquidare per via istituzionale ogni possibilità di rappresentanza parlamentare di ogni alternativa di sinistra. Il bipolarismo tanto invocato dalle forze di destra e di centro si sta tramutando in bipartitismo, con un forte partito vincente, il cui leader ha le potenzialità e la capacità della piena manipolazione del consenso attraverso i suoi tanti mezzi di comunicazione di massa, e un mezzo partito, coacervo di democratici moderati e liberisti, facente funzioni di foglia di fico al vulnus democratico.
Il sistema elettorale risultante dall’approvazione dei quesiti referendari si dimostrerebbe addirittura più arbitrario della stessa legge Acerbo con cui si instaurò il regime fascista.

Giunto al potere nel 1922, Benito Mussolini manifestò subito la volontà di modificare il sistema elettorale e di conseguenza indire nuove elezioni per la costituzione di una Camera sostanzialmente a lui favorevole (nelle elezioni del 1921 erano stati eletti solo 35 deputati fascisti).
La legge elettorale del 18 novembre 1923, n. 2444, meglio nota come legge Acerbo (dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, che ne fu l’estensore materiale), rispondeva a questa fondamentale esigenza.
Si introdusse un sistema che prevedeva la introduzione del Collegio Unico nazionale nel territorio dello Stato, attribuendo due terzi dei seggi alla lista che avesse riportato la maggioranza relativa, mentre l'altro terzo sarebbe stato ripartito proporzionalmente tra le altre liste di minoranza su base regionale e con criterio proporzionale.
Bisogna sottolineare che non era prevista alcuna soglia di sbarramento, e quindi una qualche voce veniva concessa anche ad oppositori di non rilevante rappresentanza.
La legge dopo un dibattito, che vide le opposizioni divise, fu approvata dalla Camera il 21 luglio 1923 con 223 voti a favore e 123 contrari.
Dopo qualche anno, la direzione di marcia autoritaria e totalitaria veniva sempre più accelerata.
(Perché non prevedere che questo possa avvenire anche nella nostra attuale situazione politica?)
Il disegno di legge sulla riforma della rappresentanza politica presentato alla Camera il 27 febbraio 1928 dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, introdusse un nuovo sistema elettorale che, negando la “sovranità popolare” e liquidando l’esperienza parlamentare, contribuiva alla realizzazione di un regime autoritario basato sulla figura del Capo del governo.
Il provvedimento approvato alla Camera il 16 marzo senza discussione riduceva le elezioni all’approvazione di una lista unica nazionale di 400 candidati, prevedendo la presentazione di liste concorrenti solo quando la lista unica non fosse stata approvata dal corpo elettorale. La compilazione della lista era compito del Gran Consiglio del Fascismo, dopo aver raccolto le designazioni dei candidati da parte delle confederazioni nazionali di sindacati legalmente riconosciute ed altri enti ed associazioni nazionali. (Testo unico 2 settembre 1928, n. 1993)
Il sistema elettivo fu poi abbandonato nel 1939; la Camera dei deputati venne soppressa ed al suo posto venne istituita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni di cui facevano parte coloro che rivestivano determinate cariche politico-amministrative in alcuni organi collegiali del regime e per la durata della stessa.

Ma ritorniamo alle strette vicende della legge Acerbo, quella profonda riforma del sistema elettorale voluta da Benito Mussolini e realizzata nel 1923 da Giacomo Acerbo.
Il 4 giugno 1923 il disegno di legge veniva approvato dal Consiglio dei Ministri sotto la Presidenza di Mussolini, e il 9 giugno il testo redatto da Acerbo veniva presentato alla Camera e sottoposto all’esame della commissione, detta dei “diciotto” deputati, nominata dal presidente della Camera Enrico De Nicola secondo il criterio della rappresentanza dei gruppi.
A comporre la commissione tutto il Gotha politico di quel momento:
Giovanni Giolitti (che fungerà da presidente della commissione) e Vittorio Emanuele Orlando per il gruppo della “Democrazia”, Antonio Salandra per i liberali di destra, Ivanoe Bonomi per il gruppo riformista, Giuseppe Grassi per i demoliberali, Alfredo Falcioni per la “Democrazia italiana” (nittiani e amendoliani), Luigi Fera e Antonio Casertano per i demosociali, Pietro Lanza di Scalea per il gruppo agrario, Raffaele Paolucci e Michele Terzaghi per i fascisti, Paolo Orano (in realtà anche lui fascista) per il gruppo misto, Alcide De Gasperi e Giuseppe Micheli per i popolari, Giuseppe Chiesa per i repubblicani, Filippo Turati per il PSU, Costantino Lazzari per il PSI, Antonio Graziadei per il PCI.
La legge Acerbo prevedeva l’adozione del sistema maggioritario plurinominale all’interno di un collegio unico nazionale.
Ogni lista poteva presentare un numero di candidati pari ai due terzi dei seggi in palio (si noti come, per assurdo, tale meccanismo fu spacciato per democratico in quanto garantiva di converso alle minoranze un terzo dei seggi dell’assise parlamentare, anche nel caso fossero scese al di sotto del 33% dei suffragi), cioè 356 su 535, e la lista che avesse ottenuto la maggioranza con una percentuale superiore al 25% dei voti avrebbe eletto in blocco tutti i suoi candidati.
(Nota Bene: la lista che avesse ottenuto la maggioranza con una percentuale superiore al 25% dei voti! Se passano i referendum, non è prevista per la lista vincente alcuna soglia minima di vittoria, la lista ramazza il premio di maggioranza del 54% anche con il 10% dei consensi, se vincente. Si tratta di una condizione peggiore per la democrazia di quella proposta dalla legge Acerbo.)
I restanti 179 scranni sarebbero invece andati alle liste rimaste in minoranza, che se li sarebbero suddivisi fra loro sulla base della vecchia normativa proporzionale del 1919.
Il 21 luglio del 1923, la legge Acerbo veniva approvata alla Camera dei Deputati con 223 sì e 123 no: a favore si schierarono il Partito Nazionale Fascista, buona parte del Partito Popolare Italiano (tra cui Alcide De Gasperi), il Partito Liberale Italiano e altri esponenti della destra, quali Antonio Salandra; negarono il loro appoggio il Partito Comunista d’Italia e il Partito Socialista Italiano.
Il 18 novembre del 1923, anche il Senato del Regno concedeva il disco verde alla legge con 165 sì e 41 no, e la riforma entrava definitivamente in vigore.
Alle elezioni del 6 aprile 1924 il Listone Mussolini (come il “Presidente Berlusconi” negli attuali manifesti elettorali) prese il 61,3% dei voti (il premio di maggioranza, come prevedibile, scattava per il Partito Nazionale Fascista): i fascisti trovarono il modo di limare anche il numero di seggi garantiti alle minoranze, alla cui spartizione riuscirono a partecipare mediante una lista civetta (la lista bis) presentata in varie regioni e che strappò ulteriori 19 eletti, mentre le opposizioni di “centro-sinistra” ottennero solo 161 seggi, nonostante al Nord fossero in maggioranza con 1.317.117 voti contro i 1.194.829 del Listone. Complessivamente, le opposizioni raccolsero 2.511.974 voti, pari al 35,1%.
Questa la tesi sostenuta dallo storico Giovanni Sabbatucci, pienamente condivisibile: “L'approvazione di quella legge fu un classico caso di “suicidio di un’assemblea rappresentativa”, accanto a quelli del Reichstag che vota i pieni poteri a Hitler nel marzo del 1933 o a quello dell'Assemblea Nazionale Francese che consegna il paese a Petain nel luglio del 1940. La riforma fornì all'esecutivo lo strumento principe - la maggioranza parlamentare - che gli avrebbe consentito di introdurre, senza violare la legalità formale, le innovazioni più traumatiche e più lesive della legalità statuaria sostanziale, compresa quella che consisteva nello svuotare di senso le procedure elettorali, trasformandole in rituali confirmatori da cui era esclusa ogni possibilità di scelta”.
L’analisi dettagliata della legge Acerbo dovrebbe risultare di monito a tutti coloro che si propongono di votare “sì” ai quesiti referendari. Ma le lezioni della Storia non sono mai sufficienti. Torniamo ai nostri giorni. Per la verità, anche Veltroni, optava per un sistema elettorale del genere ed era concorde con i promotori dei referendum, evidentemente sognando un destino, che sembra sorridere invece al cammino vincente del Cavalier Berlusconi & Soci.
«Il partito a vocazione maggioritaria, il voto utile, e altre sciagurate farneticazioni rientravano perfettamente in questo disegno. Non aveva capito che marchingegni del genere servono solo alla destra. Contraddicono i principi della democrazia, i democratici li rifiutano e si astengono dal voto». Come non dare ragione a queste conclusioni di Gianni Ferrara!
Comunque, pervicacemente, l’… ottimo stratega Massimo D’Alema dichiara di concedere un voto positivo, fiducioso che in seguito il Parlamento si azionerà per istituire una legge elettorale secondo il modulo tedesco, e la segreteria del PD, con in testa il buon Franceschini raccomanda di concedere il “sì” perché così si apriranno le voragini delle contraddizioni interne alle forze di maggioranza!
Sarebbe stato più opportuno per loro fermarsi alle critiche di “spendaccionismo” contro l’esecutivo, avrebbero almeno salvato la faccia! Ancora confidano di ribaltare la frittata e di godere loro dei “premi di maggioranza”: ed intanto diventano partecipi del suicidio dell’assemblea rappresentativa del Parlamento Italiano, aprendo irreversibilmente le porte ad un regime di oligarchi autoritari.
Il giorno 21 giugno 2009 disertiamo le urne, e lavoriamo, se possibile, per l’eliminazione del porcellum Calderoliano e per la difesa della Costituzione attraverso un vasto movimento di cittadini consapevoli che la democrazia è in pericolo!

giovedì 30 aprile 2009

Agostino Gemelli, "un uomo veramente nostro"

Felice Accame


Caro Presidente. Ti mando in via confidenziale una lettera dell'accademico Bottazzi. La nomina di padre Gemelli (nomina a membro dell'Accademia d'Italia, NdC) farebbe un'ottima impressione, inoltre premieremmo un uomo di valore e di cu io conosco troppo intimamente il pensiero politico. Sarebbe opportuno che la cosa avvenisse prestissimo, anche perché è quasi certo che nel prossimo Conclave egli sarà nominato cardinale (ma così non sarà. NdC). Con i tempi che corrono avere un uomo veramente nostro attorno al successore di San Pietro sarebbe cosa utile. Bisogna che tu faccia un atto di autorità presso Federzoni, il quale, più filo-giudaico che fascista, non ha eccessive simpatie per Gemelli. Dobbiamo, caro Presidente, valorizzare quegli uomini che in ogni momento ci possono servire. Ti aggiungo inoltre che in Germania mi hanno parlato di Gemelli con molta simpatia. Devoti e affettuosi saluti. Farinacci

Lettera di Roberto Farinacci a Benito Mussolini, datata 20 marzo 1935,
in A. Petacco, L'archivio segreto di Mussolini, Mondadori, Milano 1997, pagg. 82-83.


Nel 50° anniversario della morte di Agostino Gemelli (1878-1959), fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, a Milano, e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, l’Università Cattolica stessa dedica alla figura del noto francescano tutta una serie di iniziative Fra queste, l’85° Giornata Universitaria – con inaugurazione di una mostra e di una esposizione permanente –, un “incontro di spiritualità francescana”, un convegno “storico” intitolato “Nel cuore della realtà”, un concerto e la presentazione di un libro dedicato a Gemelli ed al suo laboratorio di psicologia.
Il giorno prima che l’università in questione si pagasse la sua bella pagina di pubblicità, il “Corriere della Sera” devolveva all’iniziativa una pagina intera nell’inserto milanese. In essa, fotografie e box testimoniavano avvalorando: Gemelli frate nel 1906, Gemelli cappellano militare nella prima guerra mondiale, Gemelli gioviale ed amichevole in giardini piacentini nel 1929, Gemelli, nel Laboratorio di Psicofisiologia Applicata presso il comando supremo delle Forze Armate, Gemelli aviatore e studioso dello stress del volo e, infine, Gemelli dandy – roba da far invidia più a Oscar Wilde che a San Francesco d’Assisi. La copiosa messe di santini coronava un articolo di Aldo Grasso – che guarda caso è docente all’Università Cattolica – il cui titolo strillava bicolore al centro della pagina reclamizzando “Il vero Gemelli”.

Ora, siccome a questa “straordinaria figura di uomo, scienziato, costruttore di opere al servizio della Chiesa e della società italiana” – come dice l’attuale rettore dell’Università Cattolica Lorenzo Ornaghi – e a questa “figura esemplare” da riproporre ai giovani – come dicono i curatori della mostra, Paolo Biscottini e Paolo Dalla Sega – l’articolo di Grasso intende restituire tutta la sua “verità”, e siccome l’articolo di Grasso, come peraltro l’intero contorno, soffre, per così dire, di alcune manchevolezze, ritengo opportuno provvedere a colmarle. Consapevole del fatto che, se quello raccontato da Grasso – il Gemelli “apripista di nuove discipline sul mondo dei media”, “psicologo del cinema”, “filmologo” e “percettologo” – è quello “vero”, ineluttabilmente ne consegue che il mio sarà quello “falso”.
Mi limito ad una minima serie infernale di dieci citazioni e lascio che ciascuno – studenti dell’Università Cattolica, professori più e meno in cattedra, abbindolati e assertori convinti – se la vedano con la propria coscienza.

1. Ormai in guerra, siamo alla prima, Gemelli scrive: “La patria chiama tutti alla sua difesa. Cessino le discussioni, i dissidi…(…) Oggi non c’è più luogo che per il proprio dovere, per tutto il proprio dovere compiuto con sacrificio, sino all’eroismo. Noi cattolici, che sino a ieri abbiamo lavorato per impedire la guerra, oggi dobbiamo dare tutta la nostra vita, tutta la nostra attività, tutto il nostro cuore, tutto il nostro ingegno a chi tiene nelle sue mani i destini della patria” (in “Vita e Pensiero”, 1, 10, 1915).

2. La più famosa. All’indomani del suicidio di Felice Momigliano (1866-1924), Gemelli scrive:
“se insieme con il positivismo, il libero pensiero e il Momigliano morissero tutti i Giudei che continuano l’opera dei Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che tutto il mondo starebbe meglio ? Sarebbe una liberazione” (in “Vita e Pensiero, 10, 15, 1925).

3. “Pare” – bontà sua – “che la Provvidenza particolarmente insista nell’affidare a Mussolini missioni di pace” (in “Vita e Pensiero”, 19, 7, 1933).

4. Contro le sanzioni della Società delle Nazioni di Ginevra, ecco pronte le argomentazioni per giustificare la futura guerra nazifascista: “Nell’ora delle minacce, quando il bieco massonismo internazionale, la demagogia comunista, la forza prepotente di chi gavazza nell’abbondanza e il fariseismo di protestanti, congiuravano in un poco nobile e poco ideale connubio, alzando una pretesa spada di Damocle sul nostro capo, l’Italia ha saputo conservare una tranquillità così operosa e serena, un atteggiamento così concorde e virile, da dimostrare a quale altezza politica l’abbia saputa elevare in pochi anni il fascismo”.
E poi: “V’è alcuno che crede che i popoli non aumentino, o v’è chi crede che i territori aumentino con essi ? C’è chi pensa che i poveri hanno il dovere di non aspirare a migliorare le loro condizioni, anche se il contatto con i ricchi ha loro manifestato gli abissi della loro povertà e le laute soddisfazioni dell’altrui agio ? Si può per molto tempo pretendere che un popolo, che aumenta ogni anno incontenibilmente, si voti alla miseria e alla morte ? Aveva sbocchi demografici e mercantili: li hanno chiusi ! Aveva acquitrini secolari: li ha bonificati ! Aveva il deserto libico: gli ha strappato acqua e terre per nuovi oliveti ! Ha combattuto tredici anni una dura lotta per redimersi con il lavoro più energico dalla schiavitù di una terra non ricca: ne ha fatto un giardino ! E c’è ancora chi si illude di chiudere la porta a chi chiede nuovo lavoro, nella speranza che questo secolare dissodatore di terre, tagliatore di boschi tropicali, pioniere, in ogni latitudine, di civiltà e di progresso, s’acquieti nella disoccupazione e rifiuti al suo corpo perfino la speranza di un tozzo di pane ?” (in “Vita e Pensiero”, 1935)

5. Gemelli festeggia gli sterminii in Abissinia: “Il nuovo anno si apre. Non può che essere l’anno degli Italiani. L’aprono essi registrando all’attivo atti che nessuna storia di nessun popolo può registrare” (in “Vita e Pensiero”, gennaio 1936).

6. Nel 1937, Roberto Farinacci tiene una conferenza su La Chiesa e gli ebrei, in occasione dell’inaugurazione annuale dell’Istituto di cultura fascista (Tipografia del “Tevere”, Roma 1937) richiama la chiesa alla sua tradizione antisemita e Gemelli risponde positivamente. A conferma, lo stesso Farinacci in “Il regime fascista” del 5 agosto 1938, cita Gemelli come cattolico di fiducia, che professa apertamente il proprio “razzismo antisemita” .

7. Il “Corriere della Sera” dell’11 gennaio 1939 relaziona del discorso di padre Gemelli, il giorno prima, all’Università di Bologna, commemorando Guglielmo da Saliceto, e dice che “il pubblico presente aveva sottolineato con particolari applausi quando l’oratore aveva espresso il pensiero della Chiesa nei riguardi degli ebrei, ed aveva fustigato severamente coloro che, oltre frontiera, seguivano la politica della mano tesa”. Riportando, altresì, quella che Ernesto Rossi definì la “patetica conclusione del frate francescano”: “Tragica, senza dubbio, e dolorosa la situazione di coloro che non possono far parte, e per il loro sangue e per la loro religione, di questa magnifica Patria; tragica situazione in cui vediamo, una volta di più, come molte altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una Patria, mentre le conseguenze dell’orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo”.

8. Protesta contro chi “snatura” la “grande figura di Pio XI”: perché “Il Pontefice defunto”, sia ben chiaro, “non ha fatto né della democrazia, né del filogiudaismo, né dell’antitotalitarismo” (in “Vita e Pensiero”, 1939).

9. Gemelli e Oswald Kroh, presidente della società tedesca di psicologia, nel giugno del 1941, concludevano il convegno di psicologi italiani e tedeschi, “ambedue rivolgendo il saluto ai soldati che combattono in cielo, in mare e in terra, e ambedue esprimendo la convinzione che, sotto la guida del Duce e del Fuehrer, le truppe dell’asse riusciranno a dare all’inquieta Europa un nuovo assetto fondato sulla giustizia, sul lavoro, sulla reale collaborazione dei popoli” (da un resoconto di G. Pizzuti, citato da Mecacci).

10. Ma non si potrà mai accusare di lentezza. In un articolo intitolato 25 luglio 1943, in “Rivista di psicologia”, 39, 1943 (a firma “La redazione”), Gemelli scrive: “L’atteso domani è oggi finalmente realtà, a danno e scorno soprattutto di quegli ‘intellettuali’, molti, troppi, prostituitisi ad un pagliaccesco ed immorale regime, o per conformismo imbecille, o per congenita vigliaccheria, o per ottusità morale, o – caso più frequente – per soddisfare miserabili ambizioni e sciocche vanità, per lucrare cariche ed onori, privilegi e quattrini”.

Le citazioni sono tratte da G. Israel e P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1998; L. Mecacci, Psicologia e psicoanalisi nella cultura italiana del Novecento, Laterza, Roma–Bari 1998 e E. Rossi, Il manganello e l’aspersorio, Parenti, Firenze 1958.
Parlando di Gemelli, perfino Giulio Andreotti c’è andato cauto, parlando di una mentalità “che si può chiamare una specie di machiavellismo cattolico, del fine giustifica i mezzi, sia pure applicato con le migliori intenzioni” (Intervista su De Gasperi, a cura di A. Gambino, Laterza, Roma-Bari 1977, pag. 31), tanto è vero che, “scoppiata la seconda guerra mondiale”, come dice Mecacci, “Gemelli assunse posizioni nettamente filofasciste; quando però divenne ormai chiara la fine del fascismo (e soprattutto dopo il 25 luglio 1943), egli arrivò persino a favorire all’interno dell’Università Cattolica la lotta clandestina per la liberazione nazionale”.
Da un po’ di anni a questa parte l’offensiva dei ripulitori cattolici si è fatta arrembante. All’insegna della “complessità”, hanno cominciato a parlare di un Gemelli “strategicamente” fascista – soltanto “strategicamente” – per trasformarlo in poche ben dosate battute in “antifascista”, in un “abilissimo manovratore”, in un “giocatore di equilibrio” fra pieghe mai purulente del regime. E’ così che ne è venuto fuori il “vero Gemelli”, amputato di parecchio – della gran parte andata a male – ma di quel tanto che basta affinché, tornando presentabile, un “pubblico” di fiduciosi se lo elegga a modello.

Le “interpretazioni” benevole, tuttavia, sono un conto; i documenti che restano – e che basta leggere – sono tutt’altro conto. Ma non solo: le interpretazioni benevole – per quanto benevole siano – ben che vada portano a considerare Gemelli come un “opportunista ideologico”, categoria che, rispetto a quella di “vero fascista”, ha soltanto l’ingrediente in più della malafede.

martedì 14 aprile 2009

A proposito di Stalin

Martedì 17 marzo, nella libreria Odradek di Roma, ho moderato la discussione sul libro di Domenico Losurdo Stalin. Storia e critica di una leggenda nera. Questo il testo del mio intervento.

Non sono uno storico, né un politologo. Mi è sempre dispiaciuto non appartenere alla prima categoria, e come molti, usurpo spesso l'appartenenza alla seconda. Più che uno storico mancato, mi considero un loggionista della storia, e in questa veste, forse, la libreria mi ha incaricato di organizzare questo incontro per favorire una discussione sul libro di Domenico Losurdo: Stalin. Storia e critica di una leggenda nera.

Con Giacomo Marramao e Nicola Tranfaglia, che ringrazio, a parlare di un libro che, sebbene dal titolo faccia pensare a una biografia – ma i filosofi sono restii a scriverne di biografie, anche se spesso ne sono avidi lettori – nel sottotitolo avverte che si tratta semmai di una specie di “critica dell’ideologia”, proprio del tipo di ideologia più spiccia e diretta: quella dell’abominazione, della damnatio memoriae.
Stalin come pretesto, uno schermo su cui proiettare i cangianti umori di pubbliche opinioni, i mutevoli e mutati giudizi di sottoposti e gregari, opinion makers soprattutto, i grandi maghi dello stereotipo.

Tra un po' toccherà a Mao. Scrive Federico Rampini, in L'ombra di Mao. Sulle tracce del Grande Timoniere: Mao «in compagnia di Adolf Hitler e di Josif Stalin, per formare insieme a loro la mostruosa Trinità nel Pantheon negativo dei più grandi criminali del XX secolo».

La storia come Storia di grandi criminali, storia fatta a suon di Libri neri. Non so se è il pubblico a volerlo, ma certo la produzione di "mostri gemelli" – come li chiama Losurdo – è un'industria che non conosce crisi, da Pol Pot, fino a Milosevic (Hitlerosovic titolava "Diario"), fino a Saddam, in un crescendo isterico di scambi figura-sfondo, in cui la psicopatologia rimuove contesto e pregresso, cioè la storia.

Con Marx la storia cessò di essere la cronaca di condottieri e di alcove, diventando storia di lotta di classi. Ora decade a compilazione di cartelle cliniche.
Dice Canfora, nel contributo al volume: quando riusciremo a parlare pacatamente e in maniera distaccata di Stalin come possiamo fare del sanguinario Robespierre? Certo, il vero problema è «il nesso tra Rivoluzione e Terrore, il duro problema» da Robespierre a Stalin passando per Lenin. Ma questo è un problema filosofico, temo.

Intanto, lo stereotipo, la leggenda. Ma le leggende contemporanee, di cui si occupa Marc Bloch – e di cui in Italia si è occupato Cesare Bermani – non hanno come genere prossimo le leggende metropolitane – le urban legends – bensì quelle confezionate in tempo di guerra dagli Stati maggiori, come la "leggenda dei franchi tiratori" diffusa dall'esercito tedesco contro la popolazione belga nella Grande guerra, al fine di incrudelire il proprio esercito occupante.

Voglio dire che le leggende contemporanee, questa "leggenda nera", non sono una produzione inconsapevole di un immaginario collettivo, bensì il portato di politiche pianificate di disinformazione. E ce n'è voluto perché il vincitore di Hitler finisse con l’essere accomunato a Hitler.

Ho definito questo libro una sorta di critica dell'ideologia di cui un filosofo come Losurdo si è voluto incaricare di restaurare non certo la figura di Stalin, ma un corretto rapporto con le figure e i processi storici, andando a cogliere i modi della mistificazione.

Ogni tanto qualcuno parla di "macabra aritmetica" con riferimento alla contabilità delle morti relative ad eventi e processi storici. Credo sia un nodo ineludibile, visto che la propaganda e coloro che la riproducono sono soliti alterare proprio la partita doppia della contabilità dei morti, addebitando generosamente al "mostro", e senza beneficio d'inventario, tutte le morti coeve, anche quelle dovute agli avversari (come i 750.000 morti cambogiani dovuti ai bombardamenti americani e non a Pol Pot).
Personalmente sono convinto che la Storia la si scrive e la si legge con l'aiuto delle carte geografiche ma anche di una calcolatrice, per contare i morti, certo. Per avere cioè cognizione dell'ordine di grandezza dei fenomeni, ma anche per poterli attribuire a una parte o all'altra sulla base di documenti e testimonianze, e sul loro controllo incrociato. Una condizione necessaria, anche se non sufficiente. Col risultato di dissacrare la storiografia dei piaggiatori o dei pugilatori a pagamento. Finché è possibile. Ma il sistema mediatico è assolutamente impermeabile e refrattario a queste sollecitazioni. Le ignora, e basta.

Paradossalmente, a mitigare l'unilateralità delle ricostruzioni di comodo può occorrere la fiction: il "bravo" sceneggiatore, anche prevenuto, è costretto a ricostruire la psicologia del "mostro", con la tecnica del chiaroscuro, rilasciando qualche tratto "umano" – anch'esso ugualmente falso e mistificante, naturalmente.

O l'eterno presente della civiltà dell'immagine che recupera e assortisce misericordiosamente personaggi lontani nel tempo, ucronia e utopia, come il dipinto di tre artisti cinesi che assembla 103 personaggi storici sotto lo sguardo di Dante Alighieri a mo' di regista. Gira in rete (http://tv.repubblica.it/copertina/la-tela-dei-famosi/356?gallery), e vi si possono cogliere Marx e Nietzsche, Stalin e Aristotele; Hitler e Mussolini che ascoltano Beethoven che suona il piano...

Claudio Del Bello

domenica 15 febbraio 2009

Nell’arsenale della reazione

Sul calco di una canzone di Adriano Celentano del 1967, Alberto Figliolia, Davide Grassi e Mauro Raimondi intitolano Eravamo in centomila un loro libro dedicato alla storia del derby calcistico fra Inter e Milan. Dando anche il loro contributo all’agiografia dell’impresa sportiva, nello scavare e nello scovare tra ricordi freschi, men freschi e ricordi dei protagonisti, capita ai tre autori di cedere al fascino di un’analogia – quella fra una passione sportiva divisa più e meno equamente nelle grandi città e l’espressione delle convinzioni politiche. E’ così che l’eventualità di un’unica squadra di calcio chiamata a rappresentare un’intera città viene considerata una “dittatura” e che il derby, allora, viene eletto a simboleggiare la “democrazia”, rappresentando – dicono loro – “una sorta di bipolarismo calcistico, l’esaltazione della dialettica, della libertà”.

Sono tre anche gli autori di Nati per credere. Sono il neuroscienziato Giorgio Vallortigara, lo psicologo cognitivo Vittorio Girotto e il filosofo della scienza Telmo Pievani. Se dovessi farmi un’idea delle ragioni del titolo del loro libro da una dichiarazione pubblica di Vallortigara rimarrei piuttosto perplesso. Sarebbe “probabile” – a quanto afferma il neuroscienziato – che “la selezione naturale abbia premiato tra i nostri antenati proprio quelli in grado di vedere in un fenomeno non una conseguenza naturale ma l’azione di qualcuno”. Sarebbe pertanto in ragione di ciò che il nostro cervello è predisposto a credere – e il fatto che “i bambini sino a dieci anni tendono spontaneamente a spiegare col creazionismo l’origine degli animali”, qualsiasi siano le convinzioni dei genitori, lo dimostrerebbe. Grazie, poi, al fatto che il nostro cervello distingue fra “oggetti del mondo fisico” e “creature animate”, noi tutti saremmo “dualisti intuitivi” – da cui, giocoforza, deriverebbero le nostre convinzioni in ordine alla differenza tra corpo e spirito – gli altri esempi sono miei –, oggetto e soggetto, angeli e demoni, Inter e Milan, perché no ? mente e cervello e via dicotomizzando.

Sono predisposto a credere che un berlusconiano e un veltroniano possano godere di vantaggi evolutivi più di un anarchico cassintegrato sfrattato senza fissa dimora e denunciato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Ritengo probabile che il berlusconiano e il veltroniano possano trovare lavoro più facilmente, che questo lavoro sia più remunerativo, che questa remunerazione in più consenta loro un’alimentazione più sana, cure più adeguate, vacanze più beate, abbronzatura più albicoccosa, pelle più profumata e – stante quanto sopra – finanche l’opportunità di conoscere personalmente Mara Carfagna o Sabrina Ferilli, tramite le quali, sperando nel principio che da cosa nasce cosa, replicare il proprio patrimonio genetico mettendo al mondo figli patrimonialmente predisposti a continuare a credere in berlusconi e in veltroni.
Ma come non sono predisposto a credere che un bambino arrivi a dieci anni essendo in grado di sottoporsi ai test dei neuroscienziati senza aver dovuto sorbirsi un lungo processo di adattamento ideologico di cui i genitori sono soltanto in parte i protagonisti attivi, non sono affatto disposto a credere che questa propaganda per il dualismo universale sia gratuitamente frutto di una scienza neutrale. La causa, l’effetto, il mezzo, lo scopo, il naturale, l’artificiale, il soggetto, l’oggetto e via dicendo sono costruzioni mentali al cui buono e cattivo uso veniamo tutti addestrati meticolosamente – nella consapevolezza o nell’inconsapevolezza dei nostri addestratori.
Non vorrei che tutte queste dotazioni assegnate al cervello, come certi accessori diventati di serie nelle automobili che a viva forza ci vogliono rifilare, nascondano secondi fini – ratificare visioni del mondo giustificandole in una chiave evoluzionista che, usata impropriamente, ne risulterebbe screditata.

Per quanto folle possa sembrare, attualmente sono ancora attive – particolarmente attive – numerose agenzie formative antidarwiniane. Il perché e il come ciò sia avvenuto già nel 1859, all’indomani della pubblicazione de L’origine delle specie di Charles Darwin, è ben raccontato da Nicola Nosengo e da Daniela Cipollini in Compagno Darwin, da dove traggo due giudizi che non lasciano dubbi su ciò che sarebbe seguito in considerazione degli enormi interessi incancreniti che il libro veniva a disturbare. Recensendolo sul Times del 26 dicembre 1859, Thomas Huxley disse che L’origine delle specie era un “fucile Whitworth nell’arsenale del liberalismo” e Karl Marx disse che, “nonostante tutti i limiti”, è in quel libro che, “per la prima volta”, “la teleologia nella storia naturale riceve un colpo mortale”.

Nella misura in cui Marx aveva ragione sta tutto il nostro sgomento di fronte alle stolide e pretestuose aggressioni di cui, alla faccia di Marx, il pensiero evoluzionista fu fatto oggetto nel corso degli anni a venire – senza soluzione di continuità fino ai nostri tribolatissimi giorni così apparentemente neuroscientifici, così psicognitivisti e così epistemologici nonché ancora beceramente industriati da retrivi padroni alla difesa dell’ordine costituito costi quel che costi in termini di sensatezza.
Dalle “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati per la scuola secondaria di primo grado” fornite dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Letizia Moratti – siamo nel 2004 - venivano a mancare, rispetto al passato, alcune voci come “Origine ed evoluzione biologica e culturale della specie umana”, “Evoluzione della Terra”, “Comparsa della vita sulla Terra” e “Struttura, funzione ed evoluzione dei viventi”. E’ ancora una cronaca che colgo in Compagno Darwin. Alle proteste ed alle interrogazioni parlamentari che ne seguirono – e che, in parte, raggiunsero lo scopo di far recedere il ministro dalle sue intenzioni –, la Moratti rispose che “le Indicazioni nazionali privilegiano (…) le narrazioni fantastiche, i cosiddetti miti delle origini, che favoriscono l’approccio del bambino al dato scientifico e che, adeguatamente problematizzati, consentono di individuare gli elementi qualitativi e quantitativi, funzionali di qualsiasi discorso scientifico”. Il che valeva a dire che, d’ora in poi, a scuola si sarebbero raccontate balle in piena consapevolezza di chi le raccontava e che queste balle, non si sa bene in virtù di quale magia, avrebbero aperto la strada alla scienza nelle menti degli studenti futuri. Balle oggi, insomma, per una verità domani.

Il derby, per iniziativa di Edward Stanley, conte – per l’appunto – di Derby, nasce nel 1780 come corsa di cavalli di tre anni all’ippodromo di Epsom, in Inghilterra. Parecchi anni dopo, nel 1883, Umberto I istituì il Derby Reale con il preciso scopo di incentivare l’allevamento dei purosangue e delle corse dei cavalli in Italia. Ci son voluti almeno altri settant’anni perché il termine, con una scivolata semantica piuttosto cospicua, venisse metaforizzato fino al punto di designare la sfida calcistica tra due squadre della stessa città. Che ciò abbia a che fare con un processo di democratizzazione è ovviamente escluso. Il bipolarismo calcistico – come il bipolarismo politico – è il risultato di un processo che della democrazia è più o meno esattamente l’opposto: nella logica dei grandi monopoli, dopo una selezione niente affatto casuale del “più adatto”, vengono eliminate tutte le altre alternative – in rappresentanza della miriade di società calcistiche espresse dai cittadini – e vengono rafforzate due grandi imprese ideologiche che, nella loro presunta contrapposizione, riescano ad assorbire la quasi totalità delle risorse disponibili. Raccontarla in altro modo – privilegiando le consolatorie narrazioni fantastiche e reiterando i cosiddetti miti delle origini – è come arrendersi all’evanescente spiegazione di una religione, al suo potere politico ed al modello di società classista che ne deriva. La storia delle società di calcio è storia di fagocitazioni e di ibridazioni identica a quella di qualsiasi altra società di capitali. Quando gli schieramenti sono due e due soli, le differenze di origine – quelle differenze che, un tempo, potevano essere di classe, di ceto, di tradizioni e di stili di vita – si riducono fino quasi a sparire. E’ il Derby corso dai partiti compattati in due blocchi per raggiungere l’ambito traguardo del ceto medio. La dialettica potrà avvenire solo fra tesi ed antitesi – niente sintesi, stasi e nessun superamento – e di libertà potrà solo parlare chi, consapevolmente o meno, del sistema sarà complice.



Note
Eravamo in centomila è edito dai Fratelli Frilli, Genova 2008. Nati per credere è edito da Codice, Torino 2008 e Compagno Darwin è edito da Sironi, Milano 2009. Per la dichiarazione di Vallortigara, cfr. Roberto Bonzio, Darwin “difficile” per evoluzione nostra mente, dice studioso, in it.notizie.yahoo.com
Della gravità della situazione in atto testimonia anche la recensione al minimo sindacale che Dario Fertilio ha dedicato (nel “Corriere della Sera” del 14 febbraio 2009) a Compagno Darwin. Si complimenta per il titolo – che sarebbe “gradevole”, “induce al sorriso”, “fa giovane”, “sdrammatizza piacevolmente lo scontro tra evoluzionisti e creazionisti” – e, nel veleno della coda, dice che “però il diavolo si nasconde nei dettagli”. E in che consisterebbe questo “diavolo” ? Dove cascherebbero, insomma, questi asini di autori ? Risposta di Fertilio: nel dichiararsi “infallibilmente certi di discendere dagli oranghi, dal ‘brodo primordiale’ eccetera…”, insomma, nel qualificarsi come “darwinianamente corretti”. Ora, dal momento che le cose stanno esattamente al contrario – ovvia e neppur doverosa la premessa, se mai è la leggerezza del titolo che rischia di far perdere qualcosa in termini di tara al testo (il creazionismo non è una teoria scientifica che possa concorrere con l’evoluzionismo: non c’è alcunché da sdrammatizzare) –, non mi è difficile scorgere in questa ingenua richiesta di darwinismo scorretto il corrispettivo di tutte le volute e men volute misinterpretazioni dell’evoluzionismo – bimbi creazionisti e dualisti per nascita inclusi.

Felice Accame, Radio Popolare, 15 febbraio 2009